Con Giuseppe Conte e Sergio Mattarella, un passo di lato rispetto al muro contro muro sulla composizione, Roberto Fico alla fine ha parlato dalla sua città Napoli. In visita al Salone del libro usa parole misurate e appena allusive, da politico consumato. Parole che costringono a un esercizio di traduzione ma che fanno intravedere la sua posizione.

Il presidente della Camera ha intenzione di giocare fino in fondo il suo ruolo «istituzionale», dove l’amico-rivale Luigi Di Maio lo ha collocato. Paradossalmente si trova fuori dal battibecco politico ma dentro al marasma che cova dentro il monolite del M5S. Dice, e solo il fatto che debba chiarirlo fa capire quanto la situazione gli crei imbarazzo, che «si aspettava» un accordo con la Lega. Rivendica però, come ha fatto fin dal discorso del suo insediamento, la centralità del Parlamento. Il che rimanda al futuro della maggioranza: non ci sono camere di compensazione ma la dinamica dei rapporti alla Camera e al Senato, dove il M5S ha quasi il doppio degli eletti della Lega e dove i (pochi per adesso) parlamentari grillini in sofferenza contano di rifarsi.

Ieri Di Maio ha chiesto ai suoi di sostenere Paolo Savona, secondo lo schema del «ministro a furor di popolo» tracciato da Alessandro Di Battista. Come al solito è un modello binario, facile da argomentare. Da una parte i vincitori delle elezioni e difensori della patria, dall’altra il freno al cambiamento e l’Europa. Fico si sottrae da questa cornice, immagina uno scenario più complesso e menziona il Quirinale. «Il presidente della Repubblica e il presidente del consiglio incaricato stanno lavorando. Lasciamo fare a loro», dice. Rispondendo a distanza al sindaco di Napoli, Luigi De Magistris, che accusa i giallo-verdi di aver dimenticato il Meridione, manda a dire: «Il sud non lo tradirò mai».