Nel 1940, Lion Feuchtwanger è già uno dei più importanti intellettuali antinazisti: di origine ebraica e estrazione borghese, è cosmopolita per vocazione. Fino a quel momento, i suoi anni sono stati una via al successo: saldamente accampato alle pendici del Parnaso weimariano, ha già composto romanzi storici di grande popolarità, come la famosa narrazione sull’ebreo di corte Jud Süss, bestseller, con tirature altissime lungo tutta la seconda metà degli anni Venti e alla svolta del decennio.

Quando suona l’ora critica, Feuchtwanger è da poco partito per un giro di conferenze. Da subito dichiarato ‘nemico del popolo tedesco’ dai nuovi soloni della cultura bruna, privato della nazionalità e dei titoli di studio, i suoi libri al rogo sulla pubblica piazza, la casa berlinese saccheggiata, beni e manoscritti confiscati, l’autore ha trovato riparo in una villa a Sanary-sur-Mer, dove rimarrà fino al maggio del 1940. Ha inizio qui Il diavolo in Francia, scritto autobiografico composto nel 1942, un anno dopo l’arrivo oltreoceano, sulla traccia di annotazioni diaristiche che Feuchtwanger non ha con sé mentre compone il memoir e la cui assenza gli consente di imbastire una prosa non cronachistica, non dettata – se mai fosse possibile – da un’oggettività disadorna, ma costruita sulla via della rievocazione intima, entro una topografia emotiva che dà risalto ai fatti e ancor più ai loro riverberi e alle amplificazioni interiori.

Il racconto, tripartito sulla scansione progressiva dalla prigionia alla libertà, è ora disponibile da Einaudi, in prima edizione italiana e nell’ottima traduzione di Enrico Arosio, che restituisce al meglio il carattere asciutto e partecipato insieme della prosa autobiografica di Feuchtwanger – Il diavolo in Francia (pp. 256, € 19,50).

Senza senso né costrutto
Sanary-sur-Mer è un piccolo villaggio di pescatori sulla Costa Azzurra, diventato d’improvviso, fino all’occupazione nazista, capitale della cultura austro-tedesca espatriata: Feuchtwanger vi trascorre il tempo con agio, insieme alla moglie Marta. Sette anni di esilio dorato al sole della Provenza, la casa grande e bianca, una segretaria che batte a macchina i suoi testi, Brecht e Heinrich Mann tra gli ospiti fissi, idee e pensieri in circolazione continua, libri ovunque, alberi di ulivo e, in fondo, il mare.

Con la guerra e l’inizio della Campagna di Francia, il vento cambia: come tutti i profughi e gli apolidi di origine tedesca, Feuchtwanger, cinquantasette anni non ancora compiuti, è dichiarato étranger indésirable e trasferito nel campo di internamento di Les Milles, una fornace di mattoni abbandonata, non distante da Aix-en-Provence, dove i francesi hanno allestito in tutta fretta un centro di raccolta in cui stipare stranieri, rifugiati politici, legionari. L’autore si ritrova così, a primavera inoltrata e a sorti rovesciate, a percorrere, con due valigie e le coperte sottobraccio, il cortile di ingresso al campo per farsi registrare come internato. Numero 187, uno dei duemila detenuti, ma non anonimo. La sua presenza ‘eccezionale’, come quelle di Max Ernst, di Walter Hasenclever, e di altri artisti, è conosciuta e, nei limiti di un’esistenza denudata, la sua parola è presa in considerazione tra i compagni di camerata e di rancio.

Il diavolo in Francia descrive il confinamento a Les Milles con chiarità di sguardo e vividi dettagli, nello svolgersi dei giorni: l’essere mai soli, le persone addosso, la caduta di ogni pudore, le brutture del corpo e dell’anima, le angosce del giorno, gli incubi e le insonnie della notte, la noia del meriggio, i cortili inondati di sole e di polvere, le file interminabili, la conta dei passi, la chiostra dei muri, il desiderio dell’altrove, l’adattamento coriaceo. Nel campo, la varietà è multicolore: ebrei ortodossi e rabbini dividono i metri quadri con operai, artigiani, medici, avvocati, giudici di tribunale, marxisti immalinconiti, agitatori politici già prigionieri nei campi nazisti cui questo luogo sembra una suite imperiale, sacerdoti cattolici, prussiani disciplinati e osservanti dei ranghi, bavaresi rubizzi, eruditi viennesi dall’accento cantilenante che sgranano a vuoto colte citazioni mentre rasentano le cloache a cielo aperto.

A pochi giorni dall’ingresso, la disparità economica è scoperta e quasi sguaiata, e il campo è già un mercato, incrocio di commerci clandestini dove arrivano solo le tasche più gonfie, con cento piccoli vantaggi cui il povero non accede. Con accenti mai melodrammatici e sempre trattenuti, pur senza cadere nell’asetticità, Feuchtwanger descrive bene il lavoro dei prigionieri, senza senso e senza costrutto, lo spostare e l’impilare mattoni, il far mulinare la polvere, in alternativa il ciondolare intorno e lo strologare, sotto il sole a picco, se davvero Joyce avesse introdotto qualcosa di nuovo nella letteratura o se non avesse fatto che rimasticare tecniche schnitzleriane. Altrettanto nitida è l’attesa, descritta con tocchi che quasi ricordano Buzzati o Beckett, di una fantomatica commissione incaricata del triage, le ipotesi diuturne su quando la selezione e lo smistamento, mai del resto avvenuti, avrebbero avuto inizio, e secondo quali criteri.

Fuga travestito da donna
Le pagine di Feuchtwanger tagliano precisi giudizi politici e sotto la pelle del testo si avverte chiaramente la rabbia contro la Francia che prima accoglie e poi confina i profughi che l’hanno idealizzata nelle sue dolcezze e nei suoi lumi, così come è forte il risentimento contro la sua disinvolta incuria, la pigrizia del cuore e dell’azione, compendiate nella sigla je-m’en-foutisme. È questo, per Feuchtwanger, il Diavolo in Francia, un demone meridiano e sfilacciato che produce figli ligi a una burocrazia tanto bizantina quanto sciatta, incapaci di decisione, eternamente galleggianti sulla superficie delle cose senza mai sondarne il fondo.

Nel frattempo, la Wehrmacht avanza; il Nord della Francia cade in mano ai nazisti, si firma l’armistizio che obbliga il governo di Vichy a consegnare tutti i profughi segnalati da Berlino. Feuchtwanger, che più di altri ha da temere, sale su un treno colmo di sfollati e diretto a sud, seconda stazione delle sue memorie. Il convoglio piombato, per strade sempre intasate intervallate da continue soste snervanti, passa il Rodano e poi torna indietro, deviando e scartando senza governo, fino a raggiungere Nîmes – terza e ultima tappa memoriale – per una nuova reclusione in un attendamento che è poco meno che un caravanserraglio, tra spettacoli di cabaret, canti a squarciagola e infezioni, dentro un’atmosfera di sbandamento generale. Poi la fuga, travestito da donna, con l’aiuto di diplomatici statunitensi.

Le ultime pagine, aggiunte dalla moglie quarant’anni dopo, raccontano, in stringato epilogo, la partenza da Nîmes verso Marsiglia, attraverso i Pirenei via dalla Francia, poi oltre la frontiera portoghese fino a salpare da Lisbona per l’America. Si chiude così lo spazio del racconto, mentre si apre il campo degli echi e delle risonanze: più di molti suoi romanzi storici, talvolta un po’ sfiatati, Il diavolo in Francia è un libro preciso, acuto, senza ornamenti, più che mai attuale nel raccontare la vita braccata di chi si ritrova, di colpo, senza diritti e appartenenze, in continuo attraversamento di confini, consegnato all’accoglienza o al suo contrario.