Nel 2003 il regista maori Barry Barclay scrive per la prima volta, come una sorta di auspicio, della possibilità di un «quarto cinema», in aggiunta al «terzo» teorizzato da Fernando Solanas e Octavio Getino alla fine degli anni sessanta. Si tratta di una pratica filmica da intendere come «cinema indigeno», sviluppata principalmente attraverso il documentario, fatta da autori indigeni, in comunità indigene e per un pubblico indigeno. Un cinema Indigeno con la «I» maiuscola, dove la «I»(io in inglese) è la soggettività indigena che finalmente sale sul palcoscenico espressivo della contemporaneità. Riprendendo ed omaggiando le riflessioni di Barclay, la dodicesima edizione del Taiwan International Documentary Festival appena conclusosi nella capitale dell’isola asiatica (30 aprile-9 maggio) ha dedicato una parte del suo programma a una serie di lavori realizzati da vari filmmaker indigeni nell’ultima parte del secolo scorso, 1994-2000, quando le problematiche identitarie da tempo presenti nell’isola, si intrecciarono e furono magnificate dall’avvento rivoluzionario delle piccole videocamere portatili digitali.

La storia di Taiwan è quella di un territorio da secoli sotto il dominio coloniale dove arti, usi, costumi, territorio, lingua e paesaggio urbano rivelano ad ogni istante i vari strati storici che sedimentandosi hanno costituito e costruito l’isola come la si conosce oggi. Le varie popolazioni indigene che hanno abitato l’isola per millenni, subirono prima l’invasione degli olandesi, degli spagnoli e delle popolazioni di etnia Han dal continente asiatico, e in seguito della dinastia Qing e dell’impero giapponese fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Al momento attuale esistono nell’isola sedici popolazioni indigene ufficialmente riconosciute, ognuna con la sua lingua e cultura. Nella maggior parte dei casi questi gruppi formano delle comunità che fra mille difficoltà cercano di tenere vivi e rilevanti riti, lingue e tradizioni, o semplicemente modi di vita diversi, resistendo all’omologazione culturale portata dalla modernità. Alla fine degli anni novanta il cinema digitale come «teologia della liberazione», secondo una felice espressione usata dal regista filippino Lav Diaz, ha significato per i gruppi indigeni di Taiwan la possibilità di diventare, finalmente e per la prima volta, soggettività attive e dotate di voce autonoma nel mediascape dell’isola.

Indigenous with a Capital ‘I’: Indigenous Documentaries from 1994 – 2000 questo appunto il nome del programma presentato al festival, ha raggruppato diciassette lavori, di lunghezza compresa fra i 30 e i 50 minuti, realizzati da autori indigeni su tematiche ed avvenimenti successi nelle loro comunità, che è bene ricordarlo, non sono mai gruppi chiusi ed impenetrabili ma sempre qualcosa di aperto e fluido in dialogo con ciò che succede all’esterno. Si tratta di opere di non-fiction che usano la bassa risoluzione delle piccole videocamere per raccontare storie ambientate in queste comunità indigene, spesso storie di persone alla deriva. In New Paradise (1999) di Laway Talay alcuni membri del gruppo Pangcah si spostano dalla loro zona originaria verso altre zone dell’isola per cercare lavoro, ma lì trovano solo sfruttamento ed un senso di non appartenenza che è forse una delle caratteristiche che più emergono dalla visione di questo programma festivaliero.

Un senso di non appartenenza che spesso è nascosto ma che in alcuni casi si rivela apertamente e quasi con senso di sfida, come in C’roh Is Our Name (1997) di Mayaw Biho, un breve documentario che segue un’edizione della regata organizzata annualmente dalla popolazione Han di Taiwan, il gruppo etnico di origine cinese che rappresenta la quasi totalità della popolazione, quando un gruppo di persone appartenenti all’etnia Pangcah, che di solito prestavano la loro abilità nautica ad altre squadre, decide di organizzarsi in un team formato solamente da Pangcah. Essere dietro la videocamera significa per i membri di queste comunità anche avere la possibilità di raccontare e registrare in immagini antiche tradizioni e sapienze che altrimenti sparirebbero con gli ultimi anziani che ancora le praticano, è questo il caso di un paio di lavori che si soffermano sui ricordi di un vecchio capo tribù e di una tessitrice. Uno dei lavori più interessanti presentati al festival è stato Children in Heaven (1997) ancora di Mayaw Biho, una storia che, anche se parla di un determinato gruppo etnico, è purtroppo una situazione che si vede troppo spesso laddove le differenze economiche fra ricchi e poveri sono più marcate. Per un certo periodo, una piccola comunità Pangcah fu costretta ad assistere ogni anno alla distruzione da parte del governo delle baracche in cui viveva, in quanto considerate illegali.

Sommersi da rifiuti e rovine, i bambini abituatisi a questo ciclo di distruzioni finirono per trasformare questo periodico dramma in una sorta di gioco. Il punto di vista della videocamera, in questo lavoro come in tutti gli altri film presentati nel programma, non è mai distaccato e neutro, ma sia esteticamente che narrativamente sa, fin dalle prime scene, da che parte stare. L’immagine è «brutta» a bassa risoluzione ed antispettacolare, un’immagine povera direbbe Hito Steyerl, si mischia con la gente e le persone che riprende perché è parte integrante del gruppo e della comunità. Non giudica, anche quando come nel caso di Song of the Wanderer (1996) di Yang Ming-hui, mette in evidenza i problemi, le contraddizioni e anche le violenze che attraversano molte di queste popolazioni, ma offre un punto di vista, una possibilità di espressione per chi fino ad ora non ne ha mai avuto una. Come ricordano i curatori del programma, oltre che rappresentare delle preziose testimonianze di valore storico ed antropologico su culture che stanno scomparendo, la possibilità di un cinema indigeno, o meglio Indigeno, si allontana da un’interpretazione dall’esterno di queste culture autoctone e soprattutto rompe con l’egemonia dello sguardo dell’etnia Han, della maggioranza.