Il Tempo-Festa è un microcosmo dalle molteplici sfaccettature, da quelle politico-culturali a quelle antropologiche. Ciò appartiene a quel Tempo in cui la memoria collettiva guidava un presente metastorico, annetteva il passato e si proiettava nel futuro. Queste feste vanno osservate quale riflesso di una realtà popolare e proletaria che, con linguaggio di segni, gestualità, fonicità, ritualità ed elementi magico-religiosi, tenta di schivare l’annichilimento da parte della classe dominante. È una comunità che agisce senza interesse diretto alla produzione di beni materiali, ledendo così l’economia, e che mette in atto riti simbolici e «magici» per controllare l’apocalisse e scongiurare la «crisi della presenza».

È la sacralizzazione del Tempo-Festa che detta le coordinate con cui il rito viene interiorizzato e gestito dalla collettività subalterna in un contesto circolare del tempo definito ‘Hohe Zeit’, che si differenzia dal tempo lineare presente nel pensiero della classe egemone. L’antropologo Ernesto de Martino ha studiato per primo il fenomeno magico-religioso cui si rifanno le feste folcloriche e i riti del «Profondo Sud» e ha analizzato nella prospettiva gramsciana il rapporto tra classe egemone e classe subalterna. Così, difatti, Antonio Gramsci: «Il folclore non deve essere concepito come una bizzarria, una stranezza o un elemento pittoresco, ma come una cosa che è molto seria e da prendere sul serio. Solo così l’insegnamento sarà più efficiente e determinerà realmente la nascita di una nuova cultura nelle grandi masse popolari, cioè sparirà il distacco tra cultura moderna e cultura popolare o folclore».

La festa folclorica è un momento reale del popolo e non di evasione; rappresenta una contraddizione in seno a una società che risulta divisa in due classi, di cui una raffigura potere e discriminazione, l’altra, invece, reca i segni di emarginazione, strumentalizzazione e annientamento da parte della classe egemone. Invero, a causa dei mutamenti socio-culturali, del consolidamento dei mass media, dell’ostinazione/ostentazione dei modelli individualistici, della cultura del profitto e del consumismo, la ‘Struttura Festa’ ha perso il proprio segno distintivo e s’è eclissata. Il Tempo-Festa s’è convertito in oggetto di manipolazione fino a smarrire i segni caratteristici, risolvendosi in una ritualità seriale, mercificata, standardizzata, omologata ai Diktat dell’economia neocapitalista che ha attuato, sotto i nostri occhi, un «genocidio culturale» ai danni delle classi subalterne. Genocidio che, con lungimiranza, Pier Paolo Pasolini aveva prefigurato nel lontano 1974: «Oggi l’Italia sta vivendo in maniera drammatica per la prima volta questo fenomeno: larghi strati, che erano rimasti per così dire fuori della storia ‒ la storia del dominio borghese e della rivoluzione borghese ‒ hanno subito questo genocidio, ossia questa assimilazione al modo e alla qualità di vita della borghesia».

S’assiste, dunque, alla perdita di valori di un’intera cultura; valori che non sono stati sostituiti da nuovi, a patto che, come sostiene Pasolini, non si voglia chiamare ‘cultura’ quella consumistica in cui dominano ragioni utilitaristiche e processi di accumulazione. Una funzione determinante nella ‘mutazione antropologica’ della società è ricoperta dai nuovi mezzi di comunicazione, in primis la televisione: «Non certo in quanto ‘mezzo tecnico’, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi», afferma Pasolini.

Basti guardare ‘La notte della taranta’: un ‘bel programma’ confezionato e trasmesso da vent’anni dalla TV di Stato. Una spettacolarizzazione che attira a Melpignano (LE) migliaia di giovani che poco o niente sanno del rito della taranta, come del resto poco o niente sanno gli organizzatori, dal momento che hanno deturpato una tradizione millenaria piegandola alle regole del capitalismo e del consumismo. Flussi di finanziamenti pubblici e privati per un evento commerciale che rassomiglia al carrozzone sanremese e che avrebbe fatto rabbrividire Ernesto de Martino, Annabella Rossi, Clara Gallini. Che innanzitutto si sarebbero chiesti: perché il rito, da sempre celebrato il 29 giugno nella cappella di San Paolo a Galatina (LE), è diventato uno show ‘estivo-mediatico’ promosso e messo in vetrina ad agosto?

Secondo Pasolini, solo dopo la metà degli anni Sessanta prende avvio la prima fase della crisi culturale e antropologica che porterà al «trionfo dell’irrealtà della sottocultura dei mass media», sottocultura che negli anni Settanta si affermerà come cultura dominante. De profundis che riecheggia anche alla Festa della Madonna dell’Arco, della Madonna di Montevergine, transitando per la Madonna delle Galline, dove agli arcaici interpreti della tradizione – tammorrari, cantatori e danzatori, che allestivano e gestivano ‘dal basso’ le feste e le manifestazioni a esse associate come pura devozione e che un tempo assicuravano la funzionalità collettiva di quei canti, quelle musiche, quei gesti e quei riti – sono subentrate le Pro Loco, le organizzazioni comunali o le pseudo associazioni culturali di carattere politico.

Le gerarchie ecclesiastiche hanno svuotato, sia nella forma sia nel contenuto, i canti e le danze della sacra ritualità. La perdita del significato autentico della Festa nel corso degli ultimi trent’anni, fino ad agonizzare senza prospettive di continuità futura, è stata analizzata con sguardo da antropologo anche dal sottoscritto. Che, ciò che rileva, è innanzitutto l’assenza di quell’imprescindibile maestria nel percuotere la tammorra e nel riprodurre i virtuosismi vocali, nonché la remota gestualità nel danzare da parte di giovani che manifestano un vuoto di valori e si proiettano nella mercificazione operata dai mass media e nello sfrenato consumismo dopo essersi privati della propria identità. Perché non hanno consapevolezza che nella tradizione l’evento ‘performativo’ non è ostentazione né individualismo, e che per partecipare a una festa/rito necessita essere coro e non protagonisti.

«Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. […] È attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere. Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo», attesta Pasolini. Oggi è ostico segnare i rapporti tra classi e potere perché se da un lato le classi, nell’accezione marxista del termine, non esistono più, si sono omologate in una ‘low class’ di massa, dall’altro l’identica nozione di potere è divenuta altro dalla visione monolitica del grande Moloch. È un potere ‘liquido’, per dirla col sociologo Zygmunt Bauman. In tal fluidità le classi subalterne hanno smarrito i riferimenti simbolici e identitari, perché la classe dominante ha azzerato il patrimonio tradizionale e l’ha rimpiazzato coi prodotti dell’industria/massificazione culturale. Un potere omologante che si svela attraverso la cultura del profitto, il sistema capitalistico delle banche e i mass media; che ha azzerato un’intera classe sociale senza alcun ostacolo da parte del ‘regime democratico’; che ha distrutto culture e luoghi tramite la violenta manipolazione dei corpi e delle coscienze affogati «nell’acqua gelida del calcolo egoistico», garantisce Karl Marx.