Viene considerata una piccola Ilva. Il paragone con Taranto per la situazione di Trieste, sebbene inevitabile, è comunque improprio. Basta raffrontare i numeri: 8.700 addetti ex Ilva a Taranto, 580 ex Lucchini a Trieste.
Dal fallimento del 2012 a oggi la proprietà di Arvedi – sempre in predicato di entrare nella cordata ex Ilva – è stata furba e intelligente a gestire l’impianto acquisito a ottobre 2014. Il 28 agosto scorso la Regione ha deciso per la «chiusura dell’area a caldo» «con misure compensative per la riconversione e contestuale occupazione della popolazione lavorativa eccedente».
Alla vigilia di natale è arrivato un preaccordo con i sindacati – non firmato dalla Fiom – che stabilisce il nuovo piano industriale della storica acciaieria di ghisa fondata in epoca austro ungarica nel quartiere di Servola, vicino al porto. In pratica si prevede la decarbonizzazione e si punta a potenziare l’area a freddo con una «linea di verniciatura» e una di «zincatura». In più si punta sulla logistica, sfruttando anche i fondi cinesi visto che il porto farà parte della Via della seta.
Ma i conti a livello occupazionale non tornano: anche nello schema inserito nell’accordo si mette nero su bianco che degli 310 lavoratori dell’area a caldo ne verranno recuperati solo 198 nel potenziamento dell’area a freddo, mentre altri 51 addetti cosiddetti di «staff» perderanno il posto per un totale di 163 esuberi. Per questi si prevedono – con espressione alquanto particolare in accordo sindacale – «soluzioni diverse»: «bonifiche», «spostamenti in aziende terze», «esodi volontari e incentivati».
Per questi motivi alle firme del Failms – sindacato autonomo più rappresentativo e «filo aziendale» – della Fim Cisl, Uilm e Usb, non segue la firma della Fiom. «La Fiom ritiene non esistano le condizioni per sottoscrivere un’ipotesi di accordo» spiega il segretario nazionale Gianni Venturi, dopo l’incontro che si è svolto al ministero dello Sviluppo economico, in cui Arvedi era assistita anche dall’ex capo di gabinetto esperto in crisi aziendali Giampiero Castano. «La Fiom, pur non condividendo la scelta della chiusura dell’area a caldo della Ferriera di Servola, si è detta disponibile a verificare la praticabilità di un piano in grado di fornire prospettive industriali ed occupazionali per il sito di Trieste, ma questo piano industriale non ha queste caratteristiche», spiega Venturi, perché «non può garantire la certezza della continuità occupazionale di tutti gli attuali addetti».
I punti interrogativi del piano riguardano infatti la linea di ricottura con l’installazione di un nuovo forno – chiesta a gran voce dalla Fiom – «costo eventuale 50 milioni» con decisione «nei prossimi mesi» e la riconversione della centrale elettrica promessa con passaggio da «vapore» a «gas verde» con nuova società di gestione e personale – 41 addetti – da definire.
La certezza è che «i lavoratori attualmente a tempo determinato e in somministrazione dal 31 gennaio prossimo saranno licenziati, se nel frattempo non si troveranno soluzioni in imprese terze», denuncia la Fiom. Che parla di «apprezzabili dichiarazioni di intenti insufficienti a determinare un profilo condivisibile di ipotesi di accordo».
Ora si terranno le assemblee dei lavoratori e il referendum sull’accordo, «il cui esito sarà, come sempre, vincolante anche per la Fiom», conclude Venturi. Il 7 gennaio poi con ogni probabilità sarà sottoscritto l’accordo di programma tra i ministeri dello Sviluppo e dell’Ambiente, Regione, Comune, Autorità portuale e Arvedi. La Fiom chiede di riunificare i due tavoli di trattativa in uno solo.