Che i marchi della moda abbiano una vita perenne è una convinzione molto recente. È stata la finanza che, entrata nel settore, ha fatto della riconoscibilità globale dei brand uno strumento industriale e dei nuovi designer uno strumento di comunicazione. Oggi, i casi di maggior successo sono quelli di Dior, prima con Galliano ora con Simons, Givenchy-Tisci, Céline-Phoebe Philo, Saint Laurent-Slimane, Valentino-Chiuri e Piccioli e pochi altri. Ma sono tutti casi in cui il marchio storico potrebbe essere rinominato con quello dei designer attuali, tanto la visione del marchio è legata a chi lo fa.
Al contrario, altri marchi storici tenuti in vita ma senza né enormi mezzi finanziari né designer star, vivono nelle loro nicchie di mercato pericolanti.

In contemporanea, una sorta di accanimento terapeutico tiene in vita marchi che non hanno nessuna attualità da raccontare e che, passando di proprietà in proprietà, aggravano la loro condizione. Ma non sempre la morte di un marchio di moda avviene per colpa di chi scrive la parola fine. Le cronache di moda raccontano della più che probabile fine del marchio Gianfranco Ferré, ma è cronaca di una morte annunciata. La colpa, si dice, è degli ultimi proprietari, la famiglia Sankari, negozianti di Dubai, che l’hanno acquistato nel 2011 da It Holding, azienda in amministrazione controllata e proprietaria dal 2000. Ma è a quell’anno che va retrodatata la vera fine, quando lo stesso Ferré ha venduto il marchio che fatturava 100 miliardi di lire circa a Tonino Perna, che l’ha comprato per 350 miliardi di lire.

Allora, Perna, industriale dell’abbigliamento di Isernia che doveva la sua fortuna allo smembramento dell’Iri, dichiarava di voler creare un polo del lusso, in realtà comprava marchi in crisi più per ottenere finanziamenti dalle banche che per rilanciarli con credibili piani industriali. E ne chiuse parecchi. Ma già all’epoca, Ferré, che con Armani, Versace, Krizia e altri aveva inventato la Milano del prêt-à-porter degli Anni 80, non era riuscito a dare alla visione architettonico-monumentale della sua moda l’aggiornamento necessario al cambiamento dei tempi. Le scelte palesemente sbagliate di Perna, aggravate dalla morte di Ferré nel 2007, hanno fatto il resto, fino all’epilogo di oggi: la nuova collezione non va in produzione e i lavoratori, che sono i soliti a rimetterci maggiormente, vanno in cassa integrazione.

La vicenda è dolorosa, ma non inaspettata. La moda vive soprattutto se ha la capacità di prospettare un futuro e, in passato, quando lo stilista perdeva quella capacità chiudeva, a malincuore ma con l’onestà della modestia, atelier e negozi. Gli esempi sono molti e famosi, da Poiret a Worth. Negli Anni 60, Elsa Schiaparelli, rivoluzionaria negli Anni 30, sgridava sua nipote Marisa Berenson perché si vestiva con i jeans, indumento per lei incomprensibile, ma proprio perché non capiva i tempi, quasi vent’anni anni prima aveva chiuso la sua attività. Dimostrando una sensibilità da creativo poi scomparsa.