Fabrizio Ferraro

Il bianco abbacinante della neve, lo scuro dei vestiti malconci e degli alberi tra cui soffia il vento. È in questo paesaggio che si dipana il racconto di resistenza di Fabrizio Ferraro, I morti rimangono con la bocca aperta, presentato in concorso alla Festa del Cinema di Roma. Un gruppo di partigiani si aggira per le montagne, la paura di incontrare il nemico spinge ad avanzare, ma la direzione sembra perdersi. Cresce il sospetto, esemplificato dall’elemento femminile, richiamo alla vita non compreso; nel freddo della tormenta gli obiettivi sfumano come le figure dei personaggi, sagome fantasmatiche sui monti dell’Abruzzo. Il rischio è di rimanere intrappolati nella gabbia che la guerra costruisce, nella facilità dell’odio, se non si tenta il salto per uscire dal circolo vizioso. Ferraro indaga ancora gli «unwanted», quegli indesiderati che nella presupposta posizione di minorità lasciano il segno più forte, aprendo alla storia nuove traiettorie di libertà. Se possibile più del suo soggetto, il film è un atto di resistenza in sé: alla piattezza delle immagini digitali, così come alle formule preconfezionate che hanno assorbito la radicalità di chi su qui monti c’è stato per davvero, immaginando un mondo diverso. «Fare un film di questo tipo era per me interessante per rompere la retorica che ci ha portato al disastro, anche a sinistra, dove continuano ad essere usate parole vuote» afferma il regista, che abbiamo incontrato a margine del festival.

Torni spesso, nei tuoi film, al periodo della seconda guerra mondiale. Perché?

Oltre ad una storia con cui non abbiamo ancora fatto i conti, mi interessano gli aspetti che riguardano il modo di raccontarla: il valore e il ruolo della parola, e soprattutto la distanza sempre maggiore tra il discorso e i fatti. Credo che questa sia una parte importante del dramma che stiamo vivendo, il cinema in maniera particolare. Uno dei miei primi film raccontava l’esperienza in fabbrica di Simone Weil, che per tutta la vita si è chiesta come ridurre questa distanza tra azione e parola.

Hai sottratto da questo racconto tutta l’epica e la retorica che normalmente sono associate alla resistenza.

Quell’esperienza è diventata un fondale di cartapesta perché non viene più attualizzata nelle forme del vivere. Quel tipo di resistenza o di forza vitale che cerca di resistere a delle spinte nichilistiche e distruttive, si riattiva solo quando incontra la necessità del passo, dell’azione, dell’esistere. Siamo dove siamo perché si è andati nell’altra direzione. Tutti usano le stesse parole, ogni colore politico può affermare, come dice Giorgio Caproni e come riporto nel film, di combattere per la libertà. Allora c’è un problema, bisogna vedere quella libertà che tipo di forza produce, se è mortifera o se è gioia di vivere.

Questo elemento negativo lo riporti però anche nella cerchia dei partigiani, spesso sospettosi l’uno nei confronti dell’altro. È come se la guerra generasse necessariamente tutto ciò?

Sicuramente, la guerra è una cesura che porta alla semplificazione. Io credo che siamo in un periodo di guerra innanzitutto per questo, perché semplificare produce conflitto: o con me o contro di me. La nostra vita è molto più complessa, tante persone che si sentono buone e attente agiscono le peggiori violenze. Il mondo della cultura, che sembra essere così a favore della pace, nell’atto della semplificazione non fa che contribuire alla guerra. La gente non va più al cinema, ma perché dovrebbe continuare a vedere film che sono solo l’illustrazione di un testo, senza alcun rapporto con l’immagine? La televisione basta e avanza per tutto questo. Invece si pensa che il pubblico sia stupido, e si cercano fantomatiche ricette per salvare il salvabile, ripetendo il già noto. Il problema è la mancanza di un cinema che voglia mettere in gioco il movimento della visione. Nei festival i film sono ormai al fondo delle priorità, tutto è fatto per la star o per l’interesse economico. Ma quelli dovrebbero costituire l’effetto, non la causa. Invertirli porta inevitabilmente a un processo distruttivo.

Il tuo approccio è sicuramente di altro tipo, anche sulla fotografia hai fatto un lavoro importante, lontano dall’estetica che si è affermata.

Ho cercato una relazione dinamica con la luce, che produce questi effetti quando incontra la neve, la tormenta. Al contrario di quanto si pensi, bastano troupe ridottissime perché bisogna essere dinamici rispetto agli eventi che possono capitare durante le riprese. Ma c’è stato prima un lavoro di conoscenza del paesaggio, degli effetti che fa la luce quando si sposta…si crede che questo non faccia differenza, invece poi si vede sullo schermo se c’è plastica morta o se ci sono dei battiti di vita. La montagna è forse la sfida più entusiasmante per chi lavora sulle immagini, ed è il luogo ideale per me per portare avanti questo percorso in cui ricerco la sospensione, da riattivare poi in una nuova forma di vita e azione.

Questo disorientamento coinvolge anche la concezione di spazio e tempo.

Il film cerca di intercettare le tracce, del paesaggio e della memoria, e queste non sono mai lineari. L’idea è di mettersi in ascolto per aprire una relazione fisica e sensoriale con quel tipo di violenza e condizione, provando poi ad uscirne. Primo Levi lo diceva: le paure provengono solo dal passato, rimanendovi ancorati viviamo in differita. Il futuro che pensiamo accadrà non è altro che un esercizio di recupero, su cui il cinema ha un’enorme responsabilità.