Accuse di antisemitismo e una causa in arrivo per Welcome to New York. Sono passati tre giorni dalla proiezione «fuori programma» del film di Abel Ferrara ispirato al caso Strauss-Kahn, ma il suo eco continua a farsi sentire sulla Croisette. Sabato, sul sito dell’ «Huffington Post» francese di cui è direttore, Anne Sinclair aveva espresso «disgusto» nei suoi confronti e definito «le allusioni fatte al comportamento della mia famiglia durante la guerra come degradanti e diffamatorie». Da Cannes, Ferrara aveva immediatamente risposto: «Non sono antisemita. Almeno spero, visto che sono stato educato da donne ebree». Lunedì mattina sono stati gli avvocati di DSK a farsi sentire, anticipando che l’ex presidente del Fondo monetario internazionale avrebbe intentato una causa per diffamazione contro i produttori. Nelle parole di Jean Veil, l’avvocato di Strauss-Kahn, il film è «merda, sterco di cane».

Con il suo inizio a Washington durante il quale – nel giro di pochi stacchi- si stabilisce un’equazione tra l’aggressività sessuale del protagonista, Devreaux, e quella dell’enorme potere politico/finanziario che rappresenta, questo Wolf of Wall Street del più estremo, irriducibile, tra i grandi registi italoamericani, tocca dei nervi che vanno ben aldilà della semplice componente erotica. Accolto da recensioni positive soprattutto nei territori anglosassoni (favorevoli Variety e Hollywood Reporter, ma è addirittura entusiasta il Guardian: «si tratta del giusto l’antidoto dei bassifondi alla sofisticatezza del line-up ufficiale. La perdita del concorso si è trasformata in un guadagno del grande pubblico»), in Francia Welcome to New York ha incontrato reazioni più miste (piace a Le Monde, ma a non Liberation ).

Quando da Washington il film si sposta a Manhattan la smania sessuale dell’alias di DSK si fa patologica. Nel giro di una sera e una notte, il grasso, grugnente, uomo politico «consuma» infatti un numero impensabile di donne, che escono ed entrano dagli ascensori dell’albergo e della sua stanza. Nei panni di Devraux, Gerard Depardieu si affida completamente a Ferrara, che in cambio trae da lui una performance di straordinaria intelligenza, piena di sfumature – allo stesso tempo indifesa e controllatissima. Calibrate per una durata che va ben oltre il limite di tolleranza, le scene di sesso sono filmate con un’implacabilità warholiana – lo humor, nasce a poco a poco, da dentro. Perché Welcome to New York è anche un film molto divertente. Quando, il mattino dopo, Devraux afferra brutalmente una terrorizzata cameriera d’albergo entrata per sbaglio in stanza mentre lui stava facendo la doccia, lo fa quasi senza pensarci – è solo un’altra testa da accostare al suo pene. Ferrara coreografa la scena di violenza risolvendola sostanzialmente in una sola inquadratura – lui (quindi il pubblico) non ha dubbi su quello che è successo quella notte del maggio 2011, al Sofitel.

Resa in una specie di kabuki comico la ricostruzione di come Dominque Strauss-Kahn venne arrestato a JFK (scoprirono che era sull’aereo in partenza perché aveva dimenticato il telefonino nella stanza d’albergo), con le ineffabili guardie aereoportuali che, non avendo idea di chi sta loro davanti, umiliano il grande Devraux come una procedura criminale qualsiasi. È l’omaggio del newyorkese Ferrara all’anima egualitaria/proletaria della sua città (welcome to New York….) e l’occasione per sottolineare la sua storica diffidenza nei confronti dei potenti –del cinema e no.

Potere è anche dall’altra parte dell’oceano. La signora Devraux (Jacqueline Bisset) riceve la notizia di quello che è successo, sta presenziando a una fastosa cena ai vertici parigina, del tipo che uno s’immagina organizzasse Madame Strauss-Kahn/Anne Sinclair in previsione della campagna elettorale di suo marito, e durante la quale viene ringraziata per tutti i contributi che ha dato allo stato di Israele. Pagata una strepitosa cauzione perché il marito sia rilasciato agli arresti domiciliari mentre è in attesa del processo, Simone Devraux si trasferisce a Manhattan dove affitta una casa, perennemente assediata dai giornalisti e all’interno dei cui muri, il tono di Welcome to New York passa da Warhol a John Cassavetes. Un film «da camera». Perennemente ancorata a un bicchiere di vino rosso, Madame Devraux/Jacqueline Bisset (che ha il ruolo più difficile e ingrato del film) appende implausibili quadri d’arte moderna ordinati apposta. Ma è un decor che non ha il potere di nascondere nulla. Tutto questo – tra loro – è già successo, anche se in forme differenti. Lui lo ammette candidamente alla figlia. Come due animali in gabbia, marito e moglie se lo ripetono a vicenda (a un certo punto, in un momento particolarmente crudele, lui ironizza sulla fortuna finanziaria della famiglia di lei, ammassata durante la guerra). Ferrara è un regista preciso, anche in un film slabbrato come questo: è chiaro che non giudica quell’establishment socialista di gran classe meglio del suo protagonista.