Chiara Ferragni, «fashion influencer» (seguita da 14 milioni di follower), e Fedez, popstar di successo, si sono sposati a Noto in mezzo a un frastuono social-mediatico che ha sepolto il matrimonio stesso.

Il successo dell’evento, la propagazione amplissima del rumore da esso prodotto, sono stati interpretati come il trionfo dei social sulla televisione generalista che, come è stato detto, si è fatta notare per la sua assenza, impegnandosi, invece, a riprendere, negli Stati Uniti, i funerali di Aretha Franklin e di John McCain.

Qualcuno è arrivato a dire che i video postati da Ferragni su Instagram hanno fatto invecchiare in un solo colpo tutti i «nuovi orizzonti» e i «certain regard» dei festival cinematografici.

Che il nato morto possa far invecchiare ciò che, pur passandola male, resta vivo, è inverosimile. Che lo possa soffocare, trascinare nella propria morte è un rischio sempre più incombente.

Ferragni in realtà non influenza niente. Né in senso positivo, né in senso negativo.

Non è in grado di imprimere una svolta di prospettiva nel campo della moda, non fa parte di una cultura innovatrice, di un’avanguardia che coglie nell’inconsueto nuovi spazi di relazione con il mondo.

Né appartiene ai vari barbarismi che fanno del cattivo gusto, della provocazione abbrutente uno sfogo contaminante che fa sentire, illudendo, di esistere.

Naviga con perizia (e un certo talento) in una corrente molto più grande di lei, assecondandola.

Gli «influencer» sono pedine di un meccanismo impersonale nella sua essenza, e di fatto irreale, che trova in loro la possibilità di darsi parvenza di realtà.

Questo meccanismo fa dell’assuefazione un modo di esistere. Chi segue Ferragni lo fa distrattamente. Nel farlo si distrae, si astrae da sé.

Essere seguaci è privo di soggettività e di un oggetto reale, è un agire intransitivo, uno stato di non esistenza, anestesia dell’essere.

Necessita di coordinate e di confini che gli influencer gli forniscono. Ciò gli consente di funzionare come eccitante o come calmante, di far sentire di essere attivi o tranquilli. Crea un mercato di facile e immediata espansione perché trasforma ogni cosa che tocca in un prodotto vendibile.

Il mercato dell’assuefazione ha il suo paradigma negli effetti della cocaina e della morfina. Si espande in silenzio e crea inerzia e adattamento, così non ne diventiamo consapevoli.

I grandi giornali italiani che, più della televisione, sono in crisi, pensano di poterlo cavalcare, ignorandone la natura. Hanno dedicato al matrimonio di Noto uno spazio spropositato e controproducente perché (per quanto incredibile possa sembrare) scambiano il rumore assordante (la musica tecno è un esempio del suo potere stordente, assuefacente) con la notizia.

Gli eventi «social», anche quando corrispondono ad accadimenti reali, non sono veri, ma «fake news». Le cose non sono vere perché accadono – l’accadere di per sé è privo di senso -, ma per il come potrebbero accadere, per il fatto che il loro accadimento crea uno spazio di sperimentalità e di sviluppo potenziale, rendendole trasformative e significative.

Il giornalismo avrà un destino suicida se continuerà a inseguire e imitare i social.

I giornalisti possono e devono ribellarsi a un andazzo che li fa scrivere cose assurde: «Hanno fatto girare l’economia italiana più le stories dei Ferragnez in questo fine settimana che il Festival di Venezia negli ultimi trent’anni».

La cultura italiana può produrre un benessere economico e sociale ben più di ogni economia di rete (che crea ricchezza per pochi e disastri per gli altri), ma ciò richiede impegno.

Arrivati all’età adulta dovremmo saper scegliere.