C’è una forte analogia simbolica tra lo sgombero del rave party a Modena il 31 ottobre scorso e la manifestazione nella piazza San Marco di Venezia il 18 giugno 1968: artisti e studenti manifestano contro una Biennale gestita in maniera paternalistica, antiquata, discriminante, abbracciando non solo le nuove istanze di un movimentismo ormai politico, ma pure il deciso contributo delle giovani avanguardie che stanno a loro volta rivoluzionando l’estetica moderna, a cominciare dalla pittura trendy (pop art, optical, informale) divenuta ben presto «oggetto mercantile».
La manifestazione trova subito schierate le forze dell’ordine in assetto di guerra, ma i giovani sfilano ugualmente brandendo cartelli dalle scritte fantasiose da «l’immaginazione al potere» (vero slogan della grande contestazione per intere generazioni) al curioso «visitate la polizia alla Biennale», forse suggerito da Pino Pascali trentaduenne scultore barese (morto solo tre mesi dopo per un incidente motociclistico) invitato alla kermesse ufficiale, ma che, in segno di protesta, ritira subito le proprie opere, così come fa l’astrattista Emilio Vedova, il quale obbliga la direzione a chiudere le stanze dove vengono esposte le sue tele provocatorie. Qualcuno (ancora Pascali?) suggerisce addirittura di considerare i poliziotti schierati quale happening o performance, in modo da poter agire liberamente: e resta un’idea geniale, frutto della spontaneità inventiva sessantottesca, che vanta illustri precedenti.

SPAZIO SIMBOLICO
Infatti lo spazio occupato da uno o più artisti, nel corso della storia, non è mai «istituzionale» o «ufficializzato» anche quando regolarmente provvisto di permessi vistati e carte bollate: diventa o resta «simbolico», nel senso che la presa di possesso anche solo di un metro quadro di asfalto o di un fazzoletto di terra, fin dall’antichità – la tragedia greca, le sacre rappresentazioni, sagre e feste paesane, il ballo a palchetto le serate dadaiste, l’animazione di strada eccetera – per suonare, cantare, danzare, recitare, declamare, improvvisare, risulta «sacro», nella propria alterità di rituale laico (talvolta anche religioso) che spesso infastidisce il potere o lo costringe a bloccarsi (e «bloccare»). Sotto quest’ultimo aspetto, avulsi dalle arti performative ma forma di spettacolo in toto, i giochi olimpici nella Grecia delle polis hanno la forza di costringere gli eserciti di tutto il mondo a smettere di combattere, per lasciare affluire un pubblico enorme e per favorire in pace gli atleti alla conquista di una vittoria appunto «simbolica» che, già allora, avrebbe potuto designarsi quale «potere alternativo». Già, People Have the Power «la gente ha il potere» canta Patti Smith nel 1988, più o meno in concomitanza con la nascita dei rave party.

MILLE RIVOLI
Se oggi cresce l’accanimento delle destre (come pure l’equivoco di certa sinistra moderata) contro i rave party, il motivo riguarda la scarsa conoscenza delle radici storico-etno-antropologiche riguardanti tre diversi soggetti (frettolosamente indicati come musica, droga, assembramento) che invece si esplicitano, a prosecuzione di un lungo connubio evolutivo, in simbiosi o in sintesi, tra l’iter in progress delle arti performative, delle alterazioni alchemiche, del coinvolgimento popolare.
Per quanto concerne la musica, ciò che si ascolta (ma anche si vede, si danza, si vive durante il rave) vi sono ormai serie analisi e profondi studi – i libri Rave Culture and Religion (2009) di Graham St. John, Rave New World. L’ultima controcultura (2018) di Tobia D’Onofrio e Valerio Mattioli e soprattutto il «classico» Energy Flash. Viaggio nella cultura rave (2010) di Simon Reynolds – su un filone di popular music espanso in mille rivoli – acid house, techno, hardcore, industrial dance, trap, alternative dance, i principali – che, alla stregua di ogni signum artistico, plebeo o nobile, spontaneo o impostato, sovversivo o conservatore, possiede originalità estetica e che, quale momento culturale, merita la massima attenzione, senza dubbi o tentennamenti sulla liceità del fenomeno, al di là dei pur leciti giudizi personali; infatti i mondi del rock, del folk, delle discoteche ad esempio non amano il rave sound, ma si tratta appunto di «oscillazioni del gusto», come già sottolineato, negli anni Sessanta, da Gillo Dorfles, massimo esperto di estetica contemporanea del XX secolo che, in epoca non sospetta, rimarca la libertà e l’ingegno insinuatisi fra tecnocrazia e consumismo. Sulle droghe il problema va affrontato in altra sede, sebbene occorra ricordare che la catarsi orgiastica è vecchia quanto il mondo e le forme d’arte performativa, dalla preistoria a oggi, incrociano la magia, la trance, la fede, l’esperienza collettiva, la sostanza di volta in volta afrodisiaca, alterante, allucinogena, nelle modalità diversamente espletate da epoche, società, visioni antropologiche, in tempo sia di pace sia di guerra: Antonin Artaud e Aldous Huxley sono, in tal modo, gli scrittori che a metà Novecento sviluppano prassi e teorie fatte proprie dal successivo giovanilismo ribelle. L’assembramento è un effetto biologico che fa parte del mondo animale (e vegetale): al di là della politica, che è spesso la risultante di masse in rivolta, anche l’occupazione di spazi privati, in maniera pacifica, fantasiosa, intelligente, risulta una costante dell’«ésprit du temps», per usare una definizione dell’esistenzialismo di Jean-Paul Sartre che, più o meno coscientemente, è il sostrato filosofico del rave party, benché a ribaltare l’idea della «festa-delirio» (traduzione letterale) giungano piuttosto i concetti espressi ne La società dello spettacolo di Guy Debord, inventore dei Situazionismo.

QUESTIONE ECOLOGICA
Ma le radici vanno ricercate persino andando indietro nei secoli, dove la modernità della trasgressione è da estrarre dalle mitologie capovolte dei carnevali medievali tra società feudale e chiesa cattolica; e forse, di conseguenza, i primi squatter in assoluto restano i poeti maledetti che, nella Parigi ottocentesca, abitano umide soffitte, perché contrari al lavoro di corte della letteratura ufficiale. Oltre cent’anni dopo «occupare» un garage o una cantina significa farne i luoghi deputati per la crescita di un rock e di un teatro alternativi in tutto il mondo: persino in Iran dove la musica occidentale è vietatissima, anche se proveniente dai ghetti afroamericani, i rapper locali trovano il modo di prendersi ciò che a loro è proibito, lanciando un hip hop autoctono persino dagli ultimi piani di grattacieli ancora in costruzione. E sono in molti a chiedersi oggi se un decreto legge, che riguarda gli spazi chiusi privati, possa estendersi a raduni «aperti» come quelli, en plein air, della marcia pacifica su Washington di Martin Luther King (accompagnata da musicisti sia neri sia bianchi) o del festival diWoodstock dove, rispetto alle 50mila persone previste, ne arrivano 500mila in soli tre giorni. Infine il rave party solleva in diretta un ulteriore problema, come viene «gridato» ad esempio su Facebook: «Al rave non ci sono jazz e rock, forse nemmeno acid jazz o post rock o nu jazz ma vietarlo è anticostituzionale; e poi il rave è anche metaforicamente un’azione ecologica di una sinistra anarcoide (non disprezzabile) contro l’abbandono dei capannoni industriali (in mano a mafie e/o speculatori) che inquinano e sottraggono terreno al verde o all’agricoltura. Con il rave quindi, con maggior o minor coscienza identitaria, secondo i casi, i giovani a loro modo richiamano l’attenzione sul problema ecologico che continua a essere trascurato e che forse è il più grave di tutti».
La questione ambientale riguarda anche gli edifici in disuso, talvolta rovine (se antichi), più spesso ruderi o rottami: e il riprendersi tali architetture (negazione di qualsivoglia ratio urbanistica) è, da parte del raver, un ulteriore atto «simbolico» contro il degrado morale della periferia e di conseguenza della società italiana! La realtà ha sempre diversi livelli di lettura: uno realistico-superficiale, che considera il rave party come il demonio, un altro allegorico assai più intenso, complesso, sfumato, quasi a voler rovesciare con una visionaria pacifica invasione di esseri umani (performer, dj, ballerini, ascoltatori) la crassa demagogia di certa politica tollerante solo verso le adunate sediziose di nostalgici fascisti, messi al bando o persino imputabili dalla Legge Scelba del lontano giugno 1952.

LIBERE OCCUPAZIONI ABUSIVE
Dal carnevale di Romans alle selvagge feste beatnik di Soho

Nel febbraio 1580, per due settimane, gli abitanti della cittadina di Romans (attuale Dròme, all’epoca Delfinato) si camuffano dalla testa ai piedi, si travestono con maschere grottesche e guise pacchiane, sfilando in buffi cortei, ballando a perdifiato, giocando, correndo, gareggiando per le strade, i vicoli, le piazze. In particolare la sfida tra artigiani e notabili reitera un carnevale accostabile oggi a un happening quotidiano, dove una sorta di teatro popolare contrappone spontaneamente rioni e confraternite. Ma in seguito a un’imboscata del giudice Guérin, alcuni romanesi finiscono purtroppo con l’uccidersi tra loro. La festa sanguinosa viene subito rimossa, ma il grande storico Emmanuel Le Roy Ladurie, nel 1979, con il saggio Carnevale di Romans dimostra come il conflitto venga esasperato in simultanea, in una vera lotta di classe, avente quale pretesto il rovesciamento del mondo che i carnevali dell’epoca consentono solo per qualche giorno a livello di satira o comicità; qui invece i poveri aggrediscono fisicamente i nobili che si rifiutano di pagare le imposte; gli artigiani combattono i borghesi arricchitisi tramite le finanze municipali; i contadini si scagliano contro i signori, in una lotta febbrile con forti analogie con la Rivoluzione francese di oltre duecento anni successiva. I ribelli infatti, lungi dal comportarsi come arretrati passatisti, s’ispirano ai Cahiers de doléances redatti da un’intellighenzia lettrice di Platone, Cicerone o della bibbia, onde elaborare un pensiero di liberté, fraternité, egalité ante litteram, non senza una miriade di «simboli familiari», dal regno d’inverno alla danza delle spade, dai preparativi delle semine primaverili al funerale della vita pagana.
La tragedia di Romans, pur tra musiche e danze, connota in fondo l’epilogo del Medioevo e addirittura il preludio all’età contemporanea, in cui da fine Ottocento a oggi, ribaltare il mondo vuol dire anche riprendersi uno spazio pubblico o privato, che non sia teatro, museo, galleria o sala da concerto: da sempre una prerogativa delle avanguardie artistico-culturali, l’occupazione, come i romanesi, di un luogo porta modernamente a favorire l’esatto contrario dialettico, ossia la crescita di progetti estetici interpersonali miranti alla realtà in chiave utopica, trascendente, rivoluzionaria: ad esempio fare arte mediante le cose di uso quotidiano in un luogo «ufficiale» o «istituzionalizzato», a partire dall’object trouvé (scolabottiglie, orinatoio, appendiabiti, ruota di bicicletta) di Marcel Duchamps (dada, ma situazionista e raver ante litteram) in mezzo ai quadri di una mostra, significa andare oltre il quadro, ma soprattutto andare a ribaltare il pensiero e l’ottica correnti.

ESPERTO DI FUNGHI
Persino John Cage è un proto-raver giacché, oltre 4’33’ (ovvero «comporre il silenzio» in musica), in una puntata di Lascia o raddoppia?, a cui partecipa quale concorrente (esperto di funghi) trovandosi a Roma a corto di denaro, invade metaforicamente la TV, suonando una partitura concrète per lucidatrici e frullatori: un esempio di occupazione abusiva del territorio mediatico di fronte a un attonito Mike Bongiorno. Non è da meno, sempre tra la fine anni Cinquanta e inizio Sixties, il gruppo internazionalista Fluxus (George Maciunas, Nam June Paik, George Brecht, Yoko Ono e altri), che organizza concerti atti a fare a pezzi violini o pianoforti, ricavando i suoni dall’azione di seghe, asce, martelli: qui è l’artista a decontestualizzare l’oggetto/soggetto del proprio lavoro in uno spazio/tempo, mentre su vasta scala agisce ad esempio la land art o il Gutai Group nipponico.
Durante il Sessantotto non solo la piazza diventa teatro (e viceversa) come nel caso dello spettacolo Paradise Now del Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, ma il simbolo del potere (la fabbrica e in parte scuola e università) viene occupato fisicamente anche dai musicisti: il disco collettivo Il fiume furore (1968) è la testimonianza sonora «on the road» delle rispettive presenze in Francia (Colette Magny) e in Italia (Giorgio Gaslini) di una folksinger e di un jazzista a fianco di lavoratori e studenti (tra un brano e l’altro vengono altresì riportati gli slogan nei cortei dei manifestanti). Non a caso proprio il pianista milanese come pure il saxman partenopeo Mario Schiano, all’epoca unici esponenti del free italiano, dedicheranno alle lotte operaie due significativi lp come Fabbrica Occupata (assieme al violinista Jean-Luc Ponty) e Apollon una fabbrica occupata (score del film di Ugo Gregoretti).
Il situazionismo dei rave party trova ulteriori ascendenze storiche tra gli anni Settanta e Ottanta in tre gruppi musicali europei: i parigini Urban Sax impegnati a studiare il rapporto musica/scena/architettura, riversandosi nelle strade con una ventina di improvvisatori free camuffati con tute bianche da catastrofe atomica; Les Tambours du Bronx da Nevers, un ensemble percussivo che utilizza i bidoni della benzina, recuperati dalle discariche, creando un ambiente sonoro metropolitano in ogni possibile circostanza con un ritmo volutamente primordiale dagli echi rock e techno; gli Einstürzende Neubauten (letteralmente «nuovi edifici che crollano») di Blixa Bargeld da Berlino Ovest che fin dall’inizio, accanto a chitarra, basso, batteria, si avvalgono di martelli pneumatici, lamiere metalliche, tubi flessibili, compressori con cui inventare un suono alienante, ricco di dissonanze e memore del rumorismo storico, in grado di rappresentare ed esorcizzare la società post-industriale, ottenendo dal vivo effetti sfrenati, oltranzisti, persino distruttivi.
Gli inglesi tuttavia rivendicano la primogenitura del rave, ostentando soprattutto le origini linguistiche. Difatti, già alla fine degli anni Cinquanta a Londra il termine «rave» viene usato per descrivere feste selvagge bohème dagli ambienti beatnik di Soho, con il trombettista dixie jazz Mick Mulligan, noto per indulgere in tali eccessi, a cui danno il soprannome di «re dei raver»; in America invece il rocker Buddy Holly incide il singolo Rave On (1958), dagli ottimi riscontri, dove però canta follie e frenesie amorose; tuttavia rave è un termine che torna fra le fiorenti subculture britanniche, soprattutto tra i giovani mod dei primi Sixties per descrivere qualsiasi festicciola che assuma i caratteri di una trasgressione a base di birra (e anfetamine). I ragazzi, indicati quali «animali da festa», diventano quindi «raver» e con essi i musicisti della british invasion: Steve Marriott degli Small Faces a Keith Moon degli Who si definivano «raver».

EVENTI UNDERGROUND
Quasi a presagire la successiva associazione della parola con la musica elettronica negli anni Ottanta, «rave» diventa un termine comunemente usato per la musica delle garage band e del rock psichedelico nei mid Sixties: in particolare gli Yardbirds, che pubblicano un album negli Stati Uniti chiamato Having a Rave Up, raccolta dove si ascoltato in brani diversi i tre chitarristi che si sono alternati nel gruppo: Jeff Beck, Eric Clapton e Jimmy Page. Oltre essere un vocabolo alternativo per festeggiare eventi underground in generale, «rave up» si riferisce a uno specifico momento di crescendo verso la fine di un brano quando la musica viene suonata in modo sempre più duro e veloce con assolo intensi o con effetti Larsen. In seguito la parola fa parte del titolo di un evento di musica elettronica, una performance tenutasi il 28 gennaio 1967 alla Roundhouse di Londra con il titolo Million Volt Light and Sound Rave: si tratta altresì dell’unica messa in onda pubblica di un collage sonoro sperimentale che Paul McCartney crea per l’occasione, ossia la Carnival of Light.
Caduto in disgrazia negli anni Settanta-Ottanta, il termine vanta un’unica rara eccezione nel testo della canzone Drive-In Saturday di David Bowie (dall’album Aladdin Sane) che include la frase «It’s a crash course for the ravers» (letteralmente «È un corso accelerato per i raver»), con una lettura connotativa all’epoca intesa come una funzione ironica dello slang passato. La percezione del sostantivo «rave» muta di nuovo in Gran Bretagna sul finire degli Eighties quando il termine viene ripreso e adottato da una nuova cultura giovanile, forse ispirata dall’accezione che se ne fa in Giamaica.
Tuttavia influenze artistico-culturali sui futuri scenari dei rave party arrivano dagli Stati Uniti, mediante una controcultura hippie che dà il via al cosiddetto movimento dei traveler, giovani «nomadi» specializzatisi nell’organizzare e gestire importanti fiere a scopo benefico, che diventano ben presto luogo di incontro per tutti i movimenti giovanili. Sull’onda della Summer of Love di San Francisco e del vicino Festival Monterey Pop, entrambi nel 1967, anche l’Inghilterra, senza più usare la parola «rave», come già detto, trova momenti aggregativi importanti, giacché i locali traveller (con due elle nel Regno Unito) di fatto inventano i free festival, dove «free» sta per gratuito, oltre che libero. Nel 1972, grazie ai cosiddetti British New Age Travellers, si tiene la prima grande manifestazione del genere nel Parco di Windsor, che subito viene interpretata quale atto simbolico oppositivo verso un territorio riservato da secoli all’esclusiva attività di caccia alla volpe della famiglia reale; ma nel 1974 il festival chiude a seguito della dura repressione poliziesca, lasciando però spazio alla manifestazione altrettanto «libera» (nel senso inglese di «gratis») di Stonehenge, che da allora farà da modello a iniziative analoghe in tutta Europa, come ad esempio il Festival del Proletariato Giovanile gestito autonomamente dal 1971 al 1978 dalla rivista Re Nudo con altre associazioni giovanili.