Pochi dubbi sul fatto che l’«età del sospetto» – come recita il titolo di un noto saggio di Nathalie Sarraute – sebbene fertilissima sul piano del dibattito teorico, abbia condotto la letteratura francese, verso la fine degli anni Settanta, a una problematica, se non paralizzante, impasse. La vague del formalismo di stampo strutturalista aveva inferto una condanna alla facoltà stessa di raccontare e alla sua pretesa di rappresentare il reale. Alcune idee come la distruzione del soggetto (correlato della «morte dell’autore» dichiarata da Foucault), il rifiuto della storia (intesa come Storia e come peripezia), la concezione della realtà quale entità linguisticamente costituita, sono state all’origine di una letteratura totalmente intransitiva e autoreferenziale. La radicalità del ripiegamento sul testo aveva portato ad allentare pressoché del tutto il contatto con il mondo.

Proprio contro questa chiusura asfittica hanno reagito, all’inizio degli anni Ottanta, alcuni autori che hanno provato a riaprire la letteratura al reale in virtù di una rinnovata fiducia nella sua capacità di considerare e raccontare il soggetto all’interno del mondo, inteso nella sua concretezza naturale e sociale. Non è stata una fiducia ingenua e complice di un ritorno a un banale realismo mimetico, ma piuttosto una ricerca basata sulla lucida consapevolezza delle motivazioni su cui si fondava quel «sospetto» che aveva messo in discussione le categorie di soggetto, realtà, storia. Si trattava dunque di elaborare nuove «finzioni» in grado di assumere, interrogandola, la complessità dell’esistente.

ORA LA BUCHMESSE, invitando la Francia al ruolo di ospite d’onore, implicitamente induce a un bilancio di alcune delle sue figure chiave: emblematico l’itinerario di Le Clézio – vincitore del Nobel per la letteratura nel 2008 – che, dopo l’esordio letterario negli anni Sessanta, segnato da una sperimentazione verbale finalizzata alla contestazione dei codici romanzeschi tradizionali, a partire dai primi anni Ottanta ha trasformato la propria scrittura rivelando il suo grande interesse per l’esplorazione di un mondo ancestrale. Questa transizione, in seguito ai viaggi compiuti in Messico e a Panama, implica senz’altro il fascino di un ritorno alle origini dell’umanità senza comunque mai condurre a una visione idilliaca del reale, perché l’inquietudine dell’esistenza viene piuttosto integrata nei ricorsi ciclici dell’universo.

È logico che in un’epoca dominata dalla instabilità assiologia dovuta al crollo delle ideologie, la letteratura, piuttosto che proporre alternative per il futuro, si rivolga alla storia per indagare il passato, allo scopo di comprendere l’origine dei problemi che connotano il nostro presente.
Così, per Patrick Modiano – vincitore del Nobel nel 2014 –, la società attuale, totalmente disgregata e popolata da esseri smarriti costantemente in fuga, è fortemente influenzata dalle conseguenze dell’Occupazione e del collaborazionismo, rievocati e investigati in una vasta produzione romanzesca che va da Place de l’Étoile, in cui l’attenzione all’elemento linguistico è ancora molto forte, a Dora Bruder, a Pedigree, dove l’indagine storica non può far a meno dell’arte di raccontare vicende private, e in cui lo scavo nei ricordi individuali serve a riesumare e riattivare una memoria collettiva occultata.

MA IL PASSATO è inteso anche come «biblioteca», ossia patrimonio culturale, letterario e artistico, che innerva e modella il nostro presente. L’analisi della propria identità passa allora, come avviene nei testi di Pierre Michon, attraverso un confronto – venerazione e presa di distanza al tempo stesso – con grandi maestri conclamati: scrittori come Balzac, Rimbaud, Beckett, o pittori come Goya, Watteau, Van Gogh. Questa ricostruzione della «biblioteca» non esclude comunque un’indagine più personale, quella operata nel suo primo romanzo, Vite minuscole, in cui Michon ricrea una genealogia immaginaria dei propri avi, di umili origini e totalmente ignoti, per comprendere le influenze di modelli familiari, sociali o culturali, scelti o imposti, nella costruzione di sé.

Lo scavo delle tensioni che lacerano il presente spinge, invece, Emmanuel Carrère a mostrare in che modo piccoli eventi quotidiani possano sconvolgere una vita, imponendo una riflessione sulle contraddizioni dell’esistenza: i suoi romanzi attingono dichiaratamente a fatti pubblici realmente accaduti, come nell’Avversario o a biografie di persone tutt’ora in vita, come in Limonov, o a sciagure capitate a amici vicini, ed è il caso di Vite che non sono la mia, adottando la prima persona e pescando nei fatti della propria iniziazione, per esempio nel Regno e prima ancora in Facciamo un gioco, forse il titolo in cui la esibizione delle proprie questioni private gli è costata più cara. Ma in gioco, nei romanzi di Carrère, c’è sempre la necessità del confronto con l’altro per una migliore comprensione di sé, essendo ogn’uno di noi, questo il presupposto, abitato da un’alterità.

SEMPRE NELLA PROSPETTIVA di una letteratura aperta alla realtà, a una realtà vista come via via meno omogenea, si inserisce la riflessione di un gruppo di scrittori riuniti attorno alla rivista «Inculte» (2004-2014) che elabora un «nuovo realismo», configurato come letteratura delle cose, viva e corporea, per testimoniare l’incoerenza del mondo. È in questa esperienza collettiva che si forma una nuova generazione di scrittori tra cui alcuni hanno già ottenuto importanti premi letterari: Maylis de Kerangal, per esempio, ispirandosi a soggetti tutt’altro che romanzeschi come una costruzione ingegneristica, in Nascita di un ponte, o la donazione degli organi nel suo fortunato Riparare i viventi, elabora una scrittura che lei stessa definisce «fenomenologica», indirizzata a prendere in conto tutto ciò che si manifesta.
Mathias Énard, invece, forte della sua formazione di orientalista, non cessa di attraversare, nei suoi testi, differenti spazi geografici e culturali neutralizzando stereotipi così da far emergere punti di attrito e di tangenza tra Oriente e Occidente. Proprio questo movimento di andirivieni tra l’interno e l’esterno, utile anche a elaborare un confronto con l’altro da sé, nutre l’opera di molti autori contemporanei, che anche grazie alla introduzione di elementi derivati dalla storiografia e dall’antropologia si mette al riparo non solo da ogni rischio di ripiego autoreferenziale sul testo, ma anche da ogni tentazione di chiusura nell’esagono francese.