Ci sono momenti in cui gli invisibili tornano ad essere visibili. E questo in genere avviene grazie all’arte, alla parola, al cinema, alla letteratura. Così un poeta come Nanni Balestrini, con il suo romanzo intitolato non a caso Gli invisibili, sul finire degli anni Ottanta restituì la parola a quella generazione che sembrava essersi volatilizzata e che tanti «disastri» aveva combinato durante il decennio precedente.

COSÌ DE SICA E ZAVATTINI, nell’Italia che si avviava a vivere il boom economico, portavano sulla ribalta poveri, barboni, emarginati in Miracolo a Milano. O ancora, più recentemente, in Nomadland di Chloé Zhao acquistano spessore e consistenza i nomadi homeless che lavorano e vivono lontano dagli sguardi della gente nei magazzini di Amazon oppure in piena luce come guide turistiche, ma sempre invisibili ai più.

Anche Tokyo – Stazione Ueno (21 lettere editore, pp. 167, euro 16, traduzione di Daniela Guarino) della scrittrice nipponica, ma dalle ascendenze coreane Yu Miri, romanzo vincitore per la letteratura straniera del prestigioso National Book Award, racconta la storia di un invisibile, Kazu, che si trova a vivere l’ultima parte della propria vita in una tendopoli di senzacasa, nel parco vicino a una stazione della metropolitana della capitale giapponese. Il libro è tutto narrato in prima persona dal protagonista, che risulta essere un invisibile doppio, un invisibile al quadrato, in quanto si tratta letteralmente di un fantasma, «uno che non c’è» come si definisce lui stesso, ritornato nei luoghi dove ha trascorso la parte finale della propria esistenza.

La narrazione non è lineare, procede a balzi. Per cui si passa da un periodo di tempo ad un altro: momenti dell’infanzia, Kazu è nato nello stesso anno dell’imperatore; la nascita dei figli, il figlio nasce lo stesso giorno dell’erede al trono; l’arrivo a Tokyo come operaio per partecipare ai lavori in vista delle olimpiadi del 1964; la crisi a seguito dello scoppio della bolla speculativa; le morti di parenti e amici. Così da una parte emerge, andando avanti e indietro nel tempo, la biografia del protagonista che diventa in qualche maniera esemplificativa della storia sociale del Giappone. Dall’altra vengono fuori riti, tradizioni, abitudini, modi di pensare e maniere di vivere tipiche dell’impero del Sol levante. Il tutto mescolato per di più alla vita presente del narratore fantasma, che vede persone, ascolta e riporta i loro discorsi, sente suoni e rumori.

UNA STRUTTURA, insomma, stilisticamente sofisticata, perfettamente dominata, però, dalla scrittura dell’autrice che, se da un lato costruisce a poco a poco un quadro della società capitalista nipponica, denunciandone iniquità e ipocrisie, dall’altro riesce a riempirlo di vita vissuta, di sangue e carne. I lettore si trova così ad assistere a quelle che gli abitanti della tendopoli chiamano «cacciate della montagna», cioè i momenti in cui devono sgombrare temporaneamente perché nella zona è previsto l’arrivo di un esponente della famiglia reale o di qualche altro dignitario. E gli invisibili devono allora davvero scomparire alla vista. E poi l’angoscia e la paura che li prende per le notizie di assalti criminali compiuti da gruppi di ragazzini nei confronti dei senzatetto.
Si incontrano personaggi indimenticabili come ad esempio Shige, homeless dotato di raffinata cultura, forse nella sua vita precedente era stato un professore.

Il tutto narrato con una raffinatezza che diventa semplicità, uno stile chiaro ma mai piatto e sempre in grado di tenere avvinto alla pagina il lettore. Il quale può trovare nel romanzo anche momenti davvero inaspettati come la notazione nelle prime pagine del romanzo che sembra quasi una citazione letterale del pirandelliano «La vita non conclude»: «Credevo che la vita fosse come un libro, dove una volta sfogliata la prima pagina c’è la successiva, e sfogliando una a una tutte le altre dopo un po’ si arriva all’ultima. Invece, la vita è completamente diversa dal racconto che trovi dentro a un libro. Anche se le parole sono messe una accanto all’altra e le pagine sono numerate, manca la trama. Anche se c’è una fine, non finisce».