Arrivo a Paestum venerdì sera per la riunione organizzativa dell’incontro «Libera, Ergo sum». Sono qui perché il giorno dopo, con Gabriella Paolucci, moderiamo il laboratorio «Sessualità, amore e violenza», ma anche perché sono curiosa di vedere come va dopo che tra le giovani femministe e le storiche si è dato avvio a un confronto che è proseguito fino a qui con l’incip «andate avanti voi». Le belle speranze che ripongo in questo Paestum partono dal fatto che sono le nuove leve ad aver organizzato tutto, giovani che dovrebbe essere le protagoniste assolute, con le più anziane soprattutto in ascolto. Sabato mattina l’assemblea plenaria è una sala strapiena, circa 500 donne, ma l’aria che si respira fa pensare che nulla nella vita è più difficile di un passaggio di testimone indolore. Verso le 11 sul palco salgono le F9 (femministe nove), quelle che nel 2012 erano al gruppo 9, dove il dibattito su lavoro e precarietà con Luisa Muraro aveva delineato una nuova esigenza di pratica femminsita. Giovani che adesso sono lì con il coraggio di chi non ha nulla da perdere, per leggere il loro manifesto dove ci sono frasi come «Non siamo ereditiere, siamo precarie», o «Il tempo presente ci fa orrore. Vogliamo agire per cambiarlo». Un piano d’azione che sembra una iniezione di vitalità per la maggior parte delle presenti in sala che con scrosci di applausi gridano «brave! siete tutte noi!». Un entusiasmo che però non dura perché subito dopo un intervento ci tiene a precisare che quella non è la modalità, che non si tratta di spettacolarizzare l’incontro e che qui si parla a partire da sé. Così, dopo la bacchettata della madre simbolica, la riunione prosegue con interventi che camminano cauti in un campo minato, perché qui una scintilla potrebbe diventare una bomba. Certo, ognuna parla come vuole, dice quello che vuole, all’insegna della vera libertà di parola e di pensiero ma sempre all’interno della scolastica del femminismo, quello vero. Ma andiamo avanti. Arrivano le tre del pomeriggio e ci si divide in gruppi, anche quest’anno nove. Con Gabriella andiamo in un altro albergo dove ci attendono altre donne, e alla fine siamo una ventina tra giovani e meno giovani, comprese quelle di mezzo, come me. Il nostro è il gruppo su «Sesso, amore e violenza». Stefania Cantatore, dell’Udi di Napoli, chiarisce subito come «oggi la politica ha fatto diventare la parola femminicidio come l’uccisione della donna in quanto tale solo da parte dei mariti, o ex, per parcellizzare un fenomeno che invece è espressione non solo di un ambito domestico ma più ampio», e che ora quello che fanno le isituzioni «è solo affrontare la violenza sulle donne a livello securitario».
Manuela Ulivi, presidente del centro antiviolenza di Milano dentro la rete DiRe, racconta che loro sono 25 anni che incontrano donne maltrattate, e che quello che sentono è «una specie di disagio perché le donne maltrattate danno fastidio a tutti e soprattutto alle donne». Imma Buttafuoco, parla poi della sottovalutazione della violenza e del fatto che “la violenza è una forma di dominio e di potere e si iscrive nell’ordine patriarcale nel mondo”, come dimostra anche «il decreto sul femminicidio con la sua forma securitaria». Mentre Laura Storti fa notare come l’altra faccia della violenza sia l’amore e di come sia importante rompere il binomio vittima-carnefice. Poi, tra le altre Oria Gargano, ricorda come «nefasto» il decreto femminicidio, e si dichara stufa di sentir dire che la donna è la vittima: «Non ne posso più di questa narrazione non solo nella sfera pubblica ma anche dentro il centro antiviolenza. Non c’è bisogno di far sentire la donne vittime, perché è come considerarle come lebbrose, delle poverette, che è lo zoccolo duro del pregiudizio di chi vive la violenza». Un dialogo ricco, che s’incardina anche su sessualità e stereotipi, in cui mi inserisco per ricordare che martedì (cioè oggi) approda in aula alla camera il decreto sul femminicidio per la conversione in legge, e su cui, oltre i 700 emendamenti di cui 300 da esaminare in aula, la commissione giustizia, pur avendo fatto alcuni cambiamenti al testo, permane nel presentare il pacchetto sicurezza con un concetto di fondo che vede la donna come «soggetto debole»: una donna che non è in grado di decidere e che, secondo la presidente della commissione giustizia, «deve essere difesa anche da se stessa». Una negazione dell’autodeterminazione delle donne esplicita nella irrevocabilità della querela la cui remissione, secondo il DL, può avvenire solo in fase processuale e comunque rimane «irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate», una messa in discussione della libertà della donna a decidere il proprio percorso anche dalla liberazione dalla violenza, e su cui forse le donne che sono qui a Paestum, potrebbero pronunciarsi. Ma come se avessi tirato una bestemmia in chiesa, un’avvocata di Bologna che si presenta come Teresa, mi intima con un tono perentorio, che questo non è il luogo, che qui non si parla del decreto, e che qui si parla di altro e in un altro modo. Scolastica femminista docet. Una strana maniera di intendere il dialogo, soprattutto tra donne, ma anche la libertà del titolo di questo Paestum: piccoli particolari che faccio notare andando avanti nel discorso, che alla fine trova l’appoggio di un certo numero di donne che sono lì e che vogliono far arrivare una dichiarazione, anche generica ma convinta, su questo decreto, chiedendo di riportarlo in plenaria il giorno dopo. Ma la mattina seguene, a Paestum, l’aria è tesa, troppo tesa. Gli interventi sono tantissimi, e alle 11 già non ci si può più iscrivere. E come due filoni separati, ci sono le proposte delle giovani e le dichiarazioni delle storiche: la voglia di agire e quella di rifletterci sopra. Poi arriva il turno mio e con Gabriella facciamo il report del gruppo che abbiamo seguito, ma non a tutte va bene. Quando poi qualcuna chiede di appoggiare la sindaca di Lampedusa che ha chiesto la cancellazione della Bossi-Fini, e quando Maria Luisa Boccia sostiene questa proposta e dice che sul decreto femminicidio si può semplicemente dire «Non nel mio nome», ovvero non nel nome delle donne, scoppia il caos. A quel punto una giovane mi dà il microfono, e anch’io cerco di spiegare che può essere un’adesione libera a un concetto di massima, generico, ma mi rendo conto che è quasi impossibile esporre qualcosa di sensato in quel momento, perché l’aria è densa. E allora parto da me, dichiarando un indicibile disagio di fronte alla mancanza di una reale relazione positiva tra donne e con una resistenza così totale su questioni che qui, proprio qui, dovrebbero essere quasi scontate. E mentre dichiaro questo mio sconcerto, ecco che si realizza la rottura, si spezza l’incantesimo, si squarcia il velo: la Teresa del giorno prima, prende le scale, scende vicino il palco e mi strappa il microfono dalle mani. Si realizza il conflitto, lì, davanti a tutte noi, sul mio di corpo questa volta, e quello che non si può dire viene finalmente agito. A quel punto me ne vado, dicendo che «se le giovani non vi danno retta, fanno bene». Ma ormai è troppo tardi, chi urla, chi inveisce, chi mi abbraccia e mi bacia sussurrandomi «non ti preoccupare, ne riparliamo». Poi qualcuna della mia età ma con più esperienza, mi spiega. «Finalmente imprevisti che hanno esplicitato un conflitto latente da anni – dice Anna Simone mentre sono fuori la sala – e non è mai stata una questione di età, ma una questione di assunzione di responsabilità rispetto a quello che oggi la politica fa sui nostri corpi, usandoci e vittimizzandoci senza assumersi la libertà femminile acquisita. Dire che la pratica femminista è solo la presa di coscienza è un gesto ingeneroso: tutte le donne che sono qui hanno già preso coscienza, altrimenti andavano da un’altra parte, e noi dobbiamo avere a che fare con quanto accade nel mondo. Il momento clou del conflitto di questa plenaria io lo leggo come un fatto positivo, chiarificatore». Paestum è una partita aperta, qui dal conflitto si rinasce.