«Nell’isola di Sicilia son molti effeminati, et io ne viddi uno in Napoli di pochi peli in barba o quasi niuno; di piccola bocca, di ciglia delicate e dritte, di occhio vergognoso, come donna; la voce debole e sottile, non poteva soffrir molta fatica; di collo non fermo, di color bianco, che si mordeva le labra; et insomma con corpo e gesti di femina. come donna attendeva alla cucina et alla conocchia; fuggiva gli omini, e conversava con le femine volentieri, e giacendo con loro, era più femina che l’istesse femine; ragionava come femina, e si dava l’articolo femineo sempre: ’trista me, amara me’».

È la prima minuziosa testimonianza scritta sulla presenza dei femminielli a Napoli che si ritrova nell’opera De humana physiognomonia (1586) del filosofo, scienziato e letterato Giovan Battista Della Porta (1535/1615). Che non adopera l’espressione femminiello, ma delinea il soggetto che ha tutte le peculiarità di siffatta figura sociale. Analizzare sotto il profilo antropologico e psicologico l’esistenza e il ruolo dei femminielli nella società contemporanea napoletana è indubbiamente composito, perché da un lato bisogna raffrontare le teorie di genere, dall’altro analizzare il rapporto tra i femminielli (coi relativi mutamenti) e la cultura popolare. Il termine femminiello s’attribuisce a un soggetto biologicamente maschio che si «sente» donna, assume dunque atteggiamenti e funzioni caratteristici del genere femminile ed è accettato dalla comunità. Sono figure familiari e fanno parte da sempre del tradizionale paesaggio umano della metropoli partenopea. Tant’è che nel Regno di Napoli l’omosessualità non è stata mai condannata.

I femminielli – tra cui la Tarantina, uno degli ultimi femminielli – sono attualmente presenti in rituali dove arcaicità e contemporaneità si fondono. Proprio come nel pellegrinaggio che ha luogo il 2 febbraio, in occasione della Candelora, nel Santuario della Madonna di Montevergine (in provincia di Avellino), denominata Mamma ‘Schiavona’. Secondo la leggenda fu proprio la Madonna a salvare nel 1256 due giovani omosessuali che, in seguito allo scandalo provocato dalla loro relazione, erano stati legati a un albero, abbandonati e destinati a morire di stenti sulla montagna. Il miracolo fu visto come un segno di tolleranza soprannaturale e da allora i femminielli divennero devoti della Madonna di Montevergine.

I femminielli, asserisce l’antropologa Gabriella D’Agostino, «sono protagonisti di tutta una serie di riti tesi ad affermare, esibire permanentemente e sancire ritualmente la loro appartenenza di genere». Proprio sui resti del tempio di Cibele, ovvero del tempio della Grande Madre nera, simbolo femminile della natura, è sorto il Santuario mariano.

I sacerdoti s’eviravano ritualmente per offrire il proprio sesso in dono alla dea e rivivere così con una nuova identità. S’agghindavano da donne con sete gialle, arancioni, rosa e altri colori appariscenti. Si truccavano vistosamente gli occhi e attraversavano in gruppo le città, provocando un misto di curiosità morbosa e scandalo, soprattutto per l’erotismo ostentato e la sfrontatezza delle provocazioni sessuali. Tali processioni orgiastiche a base di canti e balli a ritmo di tamburo non erano altro che i Gay Pride dell’antichità. E proprio come allora, anche adesso l’esagerazione è rituale. Travestimenti, tammurriate e crepitio di nacchere guidano l’ingresso in chiesa. Poi il silenzio cala repentino e s’innalza eminente un’invocazione salmodiante, che riecheggia all’interno del Santuario e che raduna le figlie della Mamma ‘Schiavona’.

Secondo gli studi del maestro Roberto De Simone, l’archetipo di travestitismo dei femminielli è legato all’ambito del sacro e acquisisce notevole rilevanza nel background metropolitano di fine Novecento.
Figure di genere ambiguo appartengono alla sfera del sacro e svolgono funzioni tipiche di tale ambito. Sull’affinità con esso vi sono, inoltre, segni rilevanti delle funzioni assegnate al femminiello nella cultura popolare napoletana.

Traccia di tale vincolo è palese nelle attività ludiche. E non ci si riferisce solo alla «Tombola dei Femminielli» o «Tombola Vajassa». I femminielli, invero, suggeriscono i numeri da giocare al lotto in un contesto che prova il loro mettersi in contatto con l’aldilà e che induce a reputarli degli «intermediari». Nella tradizione popolare, dunque, la diversità del femminiello è tanto collegabile all’omosessualità, quanto alla funzione simbolica della sua differenza, ossia quella di essere una figura «liminale» e perciò in relazione con la realtà soprannaturale e con la morte.

Un altro rituale praticato dai femminielli è La Figliata d’ e femminielli, descritta da Curzio Malaparte (1898/1957) nel romanzo La Pelle e nell’omonimo film di Liliana Cavani. È un rito ancestrale perché richiama alle antiche pratiche per propiziare fertilità e fecondità. Il femminiello non solo inscena la gravidanza ma tutte le dinamiche del parto, interpreta il travaglio ed è accompagnato dalle litanie di chi partecipa. Infine, partorisce un fantoccio o un simbolo fallico.

Anche la letteratura e il teatro contemporaneo hanno descritto queste figure e il loro rapporto con la comunità, identificandone i mutamenti. Giuseppe Patroni Griffi (1921/2005), per esempio, nel testo teatrale Persone naturali e strafottenti e nel romanzo Scende giù per Toledo evidenzia una Napoli crudele e angosciata. Con l’opera La Gatta Cenerentola, il maestro Roberto De Simone consacra alla popolarità la figura del femminiello. Del concetto di ambiguità sessuale è permeata tutta l’opera, dove i ruoli femminili, eccezion fatta per Cenerentola, sono infatti interpretati da attori maschili.

Per il drammaturgo e antropologo Annibale Ruccello (1956/1986), il femminiello è un travestito che risiede ancora nei Quartieri Spagnoli o s’è trasferito nell’hinterland. Basti tener presente la pièce Le cinque rose di Jennifer – testo cult del teatro italiano, gioco crudele di inganni e di attesa disperata – dov’egli esplora, adottando il carattere noir e i ritmi da thrilling, l’annichilimento dei miti/riti della comunità e la mutazione del femminiello nell’immaginario collettivo.

I legami tra individui dal genere doppio o ambiguo e la sfera del sacro, presenti in molte culture, sono stati posti in risalto nel volume Intermediate Types among Primitive Folk (1914) di Edward Carpenter (1844/1929), il primo che ha studiato l’esistenza di soggetti di genere né maschile né femminile nelle culture extra-occidentali. Pertanto, s’è introdotta la nozione di terzo genere, che non appartiene alla bipolarità maschile/femminile propria del modello teorico occidentale, ma descrive un altro modo di vivere l’appartenenza di genere, come gli Xanith in Oman, i Kathoeys in Thailanda, gli Hijras in India. È noto che per numerose culture, delimitare il confine tra travestimento, ermafroditismo e omosessualità, è alquanto difficile.

Anche i femminielli rientrano in questa complessità di generi, costituendo una struttura simbolica e collettiva accettata dalla comunità, ed esprimono i propri rituali com’è avvalorato dalle ricerche antropologiche e sociologiche. Eppure, disfacimento sociale, delocalizzazione abitativa, nuove forme di organizzazione socio-culturale e rapporti fra generi impongono di approfondire il fenomeno dei femminielli all’interno della nostra società mutante.