Poco più di un mese fa, la prima sezione del Tar Lombardia-Brescia, ha emesso una sentenza piuttosto interessante a proposito del giudice competente e dei criteri di risarcimento del danno da femminicidio. La pronuncia, diffusa su Altalex.com da Domenico Chindemi (magistrato di cassazione, docente universitario), individua nel giudice ordinario quello eventualmente competente per il risarcimento a carico dello Stato. E, proprio per questo, apre la strada a una serie di riflessioni che sarebbe ora di cominciare a fare.
Al momento, ha detto il Tar Lombardia-Brescia rispondendo a una coppia di genitori cui un efferato delitto ha sottratto la giovane figlia e che non hanno mai potuto ottenere soddisfazione dal colpevole, sanare il danno subito utilizzando lo strumento risarcitorio da parte dello stato non è possibile poiché la violenza di genere non è assimilabile, per via delle norme che regolano la legge 302/90, alla violenza subita dalle vittime dei delitti di mafia e terrorismo.
Del resto, la norma regina in questo campo sarebbe contenuta nella Convenzione di Istanbul, approvata sì dal parlamento italiano il 19 giugno scorso, ma non ancora operativa poiché manca la ratifica di altri stati europei. E’ l’articolo 30 della Convenzione a dire che «le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che le vittime abbiano il diritto di richiedere un risarcimento agli autori di qualsiasi reato previsto dalla presente Convenzione». Nel caso in cui la riparazione non sia garantita da altre fonti, il secondo comma prevede che sia accordato «un adeguato risarcimento da parte dello Stato…a coloro che abbiano subito gravi pregiudizi all’integrità fisica o alla salute».
C’è dunque un vuoto normativo da colmare, al più presto, poiché è evidente che la Convenzione necessita di una legge di attuazione con il corollario della copertura finanziaria.
Nelle more, non resta che cercare conforto nella violazione, da parte dello Stato italiano, del proprio dovere di proteggere le donne dalla violenza domestica, non più trattabile come questione privata ma di interesse generale e pubblico. A sostegno, parecchie pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Una riguarda il caso di due donne turche una delle quali, al culmine di un percorso di violenze, fu assassinata dal marito della figlia. Ha osservato la Corte che «la mancanza di risposta complessiva del sistema giudiziario e l’impunità di cui godono gli aggressori…ha indicato che non vi era l’impegno sufficiente (del governo turco, ndr) per adottare le misure necessarie ad affrontare la violenza domestica». In un altro caso, si è ravvisata la violazione dell’articolo 3 Cedu (divieto alla tortura) a proposito delle violenze inflitte da un cittadino belga nei confronti di una donna lituana con cui conviveva da anni.
Si tratta, ovviamente, di fornire la prova che lo Stato italiano non adempie all’obbligo di «proteggere gli individui sottoposti alla sua giurisdizione contro maltrattamenti posti in essere da altri privati», scrive Chindemi. Ad esempio, dimostrando la negligenza delle forze di polizia nel condurre le indagini (dati gli episodi recenti, siamo dell’opinione che la Cedu non troverà faticoso accettare l’ipotesi!).
Oppure, invocando nei confronti dello Stato «la mancata esecuzione delle misure disposte dal giudice nazionale…lasciando la vittima per un periodo prolungato esposta al pericolo di ulteriore violenza«. Anche qui, gli episodi non mancano. Perciò, restiamo in attesa di sapere che il governo – anche per evitare di essere bacchettato dall’Europa – appronti le misure indispensabili (normative e finanziarie) a rendere strumento vivo la Convenzione votata dalle camere.