Fela Kuti è, probabilmente, uno degli artisti più influenti del ‘900. Di lui, Brian Eno dice: è l’artista di cui posseggo più dischi. Inventore con Tony Allen dell’afrobeat, pagò con la persecuzione le sue prese di posizione politiche contro il governo nigeriano, corrotto e antidemocratico. Negli anni, sono usciti diversi documentari su di lui, tutti di caratura internazionale, ma nessuno era stato in grado di entrare nella sfera privata di Fela, analizzando il personaggio in modo più approfondito. C’è voluto un archivio sconvolgente, creato nell’arco di un decennio, da fine ’80 a fine ‘90 dal regista e videomaker Michele Avantario, ed un lavoro magistrale del regista Daniele Vicari per dare vita a un omaggio spassionato e originale. L’artificio narrativo è semplice: il film non è su Fela Kuti, ma su Michele che scopre Fela. Le musiche di Teho Teardo, poetiche e oniriche, sono in contrappunto alla poliritmia selvaggia dell’afrobeat; il montaggio sapiente è del giovane Andrea Campagnola ed il flusso catartico di parole del diario personale di Michele, è letto dalla voce calda di Claudio Santamaria. Ho incontrato Daniele Vicari poco prima della presentazione alla Festa del Cinema di Roma, in programma stasera. «Incontrai Renata Di Leone, la moglie di Michele, qualche anno fa proprio alla Festa di Roma. Mi parlò dell’archivio lasciatole in custodia dopo la sua morte, nel 2003. Decidemmo di scrivere il soggetto assieme. Mi spaventava toccare un tema già più volte trattato, ma guardando questi materiali, leggendo gli appunti ho capito che c’era tanto da poter raccontare».

La cosa che sorprende è che sei conosciuto come regista di lavori impegnati, ma non di film musicali. Cosa ti interessa di Fela Kuti?

Quello che Fela insegnava era la possibilità di rivoluzionare la musica. Non è uno scherzo inventare un genere musicale. Fela distrugge in modo radicale tutti i pregiudizi che secoli di colonialismo hanno ancorato nelle coscienze occidentali. È il mondo che ti si mette davanti: cari occidentali non siamo solo soldati e carne da macello, abbiamo una grande tradizione e facciamo avanguardia. Il panafricanismo nasce dalla consapevolezza di Fela e altri artisti africani secondo cui l’Occidente buono deve smetterla di occuparsi di loro. Se non ci rompete, noi siamo in grado di fare arte allo stesso livello, se non superiore. Gli esempi sono tanti: la Nigeria è il paese che produce più film al mondo dopo l’India e gli Stati uniti.

Come era Michele prima di incontrare Fela?

Michele incarnava ciò che stava succedendo negli anni ’80 a Roma. Nell’84 vissi l’Estate Romana di Nicolini. Era talmente potente che ovunque fossi nella città, ti raggiungeva. Fu un fulcro per l’internazionalizzazione di una città provinciale. È stata una epoca sottovalutata, perché da un lato c’erano le ceneri del terrorismo, dall’altro c’era lo yuppismo, ma era invece è il periodo della grande rivoluzione dei video artist, dei media, di Videomusic. Michele era al centro di tutto questo, sperimentando formati tv, costeggiando i pionieri della video arte, diventando un animatore fondamentale della scena romana.

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Oltre Fela, una storia afrobeatCome hai capito che non stavi realizzando un semplice film- ritratto?

Michele scrisse la sceneggiatura di un film di finzione in cui si raccontava la storia di un giornalista che scopre la comune di Kalakuta, la Libera Repubblica fondata da Fela, che avrebbe dovuto fare il protagonista e impersonare se stesso. Il paradosso è che Fela accettò di farlo pochi mesi prima di morire, nell’agosto del ‘97. Michele riesce quindi a riprendere l’essenza di Fela solo quando è morto, al funerale. Può sembrare un fallimento, ma non lo è. Michele fu l’unico bianco, l’unico occidentale che ebbe il diritto di accedere e poter filmare a Kalakuta, di poter entrare nella vita intima di Fela e della sua comunità. Quando Fela muore, a parlare alla tv nigeriana ci va lui, è un riconoscimento inimmaginabile.

Si svela un Fela non facile, anche duro nei confronti di Michele.

Il musicista difende sino all’ultimo il suo diritto a non essere svelato. In una scena del film molto dura, Fela caccia Michele da Kalakuta, perché aveva filmato le sue donne senza averne il diritto. Fela conosceva le ambiguità dei media, era un uomo di spettacolo. Fece a Michele quello che le tribù filmate da Jean Rouch non avevano gli strumenti per fare: tu non puoi guardarci come guardi i leoni nella foresta. Era questo il paradosso: Fela fece capire a Michele che era lui a doversi svelare, a dover cambiare. Ha fatto sì che Michele prendesse coscienza, non filmando, ma vivendo. È un ribaltamento, l’oggetto di studio ricostruiva l’artista.

Ma Michele, nel suo essere accettato da una comunità così recalcitrante alla cinepresa, ha avuto grandi qualità da etnomusicologo.

Michele non è un accademico strutturato. Ma proprio per questo ci permette una vicinanza, una complicità e ci aiuta a entrare e vivere quel mondo con e attraverso lui. Michele che è apolitico, molto mondano, quando va in Africa scopre il mondo come una espansione nel mondo. Frequentando Kalakuta, cambia natura. Diventa un documentarista dell’animo umano. Prende la videocamera, con cui prima faceva sperimentazioni visive per rompere gli schemi della televisione, per fondere i linguaggi e si ritrova a filmare questa sua trasformazione da occidentale a cittadino del mondo.

La redazione consiglia:
A Fela Kuti si addice l’ibrido tradimentoIl film racconta un incontro tra due persone. Tra una star della musica e un artista sperimentale? Tra l’avanguardia della rinascita africana e l’arte occidentale in crisi di valori?

Questo film parla dell’utopia del cinema, della musica. Ciò che risulta impossibile, fare un film su Fela, diventa il luogo della sua trasformazione. Ma è questa la cosa bella: che un cineasta, pur fallendo, voglia raccontare questo incontro. Perché incarna il fallimento del cinema documentario, con il quale dobbiamo fare i conti, raccontando e prendendo coscienza dei limiti. Lo scacco vero del documentarista è che la realtà non la puoi ricreare: la prendi o la perdi.

Il mondo sta cambiando, in peggio. Il rapporto tra Nord e Sud, Oriente e Occidente si complica. Mancano le cerniere, probabilmente. Michele che era una cerniera, cosa farebbe oggi?

Michele aveva bisogno di vivere una vita diversa e quella comunità lo ha accolto in modo totale. Quando decide di sottoporsi ai riti magici di Fela, nei fatti lui accetta il suo immaginario. Ed è così che spiega nel diario che il suo rapporto con Fela, come di tutti in quella comunità, è un transfert attraverso i sogni. L’approccio di Michele è fondamentale, perché pone il tema della fratellanza e della conoscenza: io sono l’altro e l’altro è me. Ci permette di pensare quello che stiamo perdendo, che è l’apertura al mondo, che si è ristretto incredibilmente. La guerra, da un lato, il consumismo dall’altro. Se non ci si concede di diventare altro da sé, la società non potrà che affrontare le differenze con la guerra.