Nel precedente album Miner’s Canary (2015), metafora della disuguaglianza tra bianchi e neri, la rapper e poetessa Akua Naru, omaggia Toni Morrison dichiarando la diretta influenza dell’autrice di Song of Solomon sulla sua poetica e sull’opera di molte scrittrici afroamericane. Indubbiamente tra i suoi modelli di riferimento «assieme a tante altre donne forti che hanno portato avanti rivoluzioni e guidato movimenti», Akua Naru condivide con lei la convinzione che l’arte migliore è politica e che si deve riuscire a renderla al contempo «indubbiamente politica e irrevocabilmente bella».

Naru adotta così una prospettiva originale sulla musica afroamericana contemporanea, tentando di valorizzare, «il senso del sé» di intere generazioni di donne nere ridotte al silenzio e all’insignificanza. «Nelle mie canzoni parlo di cosa significa vivere in questo corpo», è lapidaria.

Comincia a rappare da bambina invogliata da uno zio di qualche anno più grande, ma è il pestaggio nel suo quartiere di una donna afro-americana a istigare la linea delle sue rime. Perciò nell’ultimo, The Blackest Joy è la tennista Serena Williams l’archetipo per raccontare, in Serena, la lotta quotidiana di una delle tante donne nere costrette all’irrilevanza. Date le premesse, The Blackest Joy ha il suono di un urlo politico e la consistenza di un’opera di resistenza, in memoria della schiavitù, alle forme di disumanizzazione e di oppressione quotidiana dei neri, ma è anche un accorato appello alla gioia.

La felicità è una questione politica, è il monito di Akua Naru, una faccenda terribilmente seria. L’artifizio narrativo peculiare nella sua poetica è la metafora, e la narrazione procede nel raccontare piccole storie; Baldwin’s Crown, è una agiografia dell’amato James Baldwin, scrittore controcorrente, My mother’s daughter uno sguardo sul sé riflesso; essere nera è bello, è il messaggio in codice di Akua Naru. Blackness e femminismo nero sono i cardini del progetto, per conferire un’impronta segnatamente femminista alle rivendicazioni di movimenti come Black Lives Matter.

La rapper del Connecticut è meno incline al discorso sull’etnicità post-coloniale di Stuart Hall, scrive un compendio tra essenzialismo nero (black power) e una ri- negoziazione, molto tenue, dell’identità diasporica, in un cut e mix tra genere e razza dove la costruzione discorsiva sull’identità nera stenta a riconciliarsi con il métissage e l’universalismo di forme musicali ibride come il jazz, l’hip hop, il nu-soul, rivendicandone, in controluce, un’essenza black.