Immaginate una piccola villa in stile provenzale sulle colline torinesi: intonaci chiari, cancelli e inferriate graziosamente ridondanti, il volume arrotondato di una torretta che si alza al centro dell’edificio. Immaginate che una volta varcata la soglia vi troviate davanti ad ambienti del tutto ordinari, completamente avvolti e occupati da un arredamento stile Settecento e rococò. Infine immaginate che appesi a quelle pareti, coperte di specchi, boiserie, modanature, tappezzerie e decorazioni in ogni angolo, ci sia una sequenza di capolavori da far invidia a un grande museo, da Pontormo a Bacon.
È questa la situazione straniante in cui ci si immerge visitando quell’incredibile microcosmo che è la Collezione Federico Cerruti, aperta al pubblico da maggio e affidata in comodato alla gestione del vicino Museo del Castello di Rivoli, diretto da Carolyn Christov-Bakargiev (la proprietà è della Fondazione, oggi presieduta dalla sorella di Cerruti). Si entra in piccoli gruppi, perché le dimensioni degli ambienti non permettono diversamente; ci si guarda attorno, seguendo delle guide molto ben preparate che svelano i segreti della casa, e di stanza in stanza si cerca di intercettare quale sia stato il percorso mentale che ha guidato il ragionier Federico a raccogliere e ad allestire con una cura che percepiamo essere stata meticolosa, quell’incredibile serie di capolavori. «Abbiamo collezionato un collezionista», ha sintetizzato perfettamente Carolyn Christov-Bakargiev. In effetti la villa va vista come un’installazione, stupefacente ed eccentrica, i cui criteri e le cui logiche non vengono mai completamente svelati perché fanno parte dei pensieri segreti di colui che l’ha immaginata e assemblata.
Federico Cerruti è stato un campione dell’imprenditoria piemontese. Genovese di nascita, era diventato titolare di una legatoria ereditata dal padre, la Lit, Legatoria industriale torinese. Nel 1957 aveva introdotto in Italia dagli Stati Uniti, con un investimento coraggioso, la tecnica della perfect binding, cioè la rilegatura a macchina senza cucitura. Da quella macchina potevano uscire anche duecentomila volumi al giorno: una potenzialità che gli permise di acquisire la commessa delle guide del telefono, con fatturati (e utili) che è facile immaginare.
Il ragionier Federico non era sposato, e aveva voluto costruire quella villa non per sé ma per i suoi genitori, che però tra quelle mura non dormirono neppure una notte. Questo nonostante due stanze fossero pronte di tutto punto ad accoglierli al primo piano, in compagnia di opere di Morandi, Gentileschi, Max Ernst, De Staël, Magritte e altri ancora. Era pronta a puntino anche la sala da pranzo, piccola e intima, completamente fasciata di specchi settecenteschi che riflettono la luce dell’esterno. A quegli specchi stavano e stanno appesi sette De Chirico in aristocratica solitudine, con due opere straordinarie del periodo ferrarese che spiccano sulle altre. La contigua cucina, arredata sin nei minimi dettagli in stile provenzale, non è mai stata usata, come testimonia il fatto che non ci sia allacciamento alla rete del gas.
Erano stati Giulio Ometto e Piero Accorsi (antiquario di riferimento della borghesia torinese) a convincere Cerruti ad abbandonare quello stile provenzale e convertire la villa a un arredamento come quello che oggi abbiamo sotto gli occhi. Non fu certamente una scelta passiva, perché in tante situazioni si coglie una strategia messa a punto con attenzione dal proprietario: ad esempio, in quello che era l’ingresso, un locale di dimensioni esigue e a pianta allungata, il collezionista aveva cercato subito dei cortocircuiti per accogliere i visitatori (per altro molto rari: la casa si animava due volte l’anno, in occasione del suo onomastico e del suo compleanno, il 31 dicembre). La prima opera che accoglieva chi entrava in questo ambiente, caratterizzato da un allestimento in stile settecentesco, era un acquerello di Paul Cézanne, La fontana, (1876-’78), appoggiato su un tavolino Luigi XV assieme al quaderno delle visite.
Si coglie una regia anche nella scala, che in termini un po’ enfatici viene chiamato «scalone». Al pianerottolo a terra ci sono tre opere tutte su tela iuta, due di Klee e una di Mirò. Salendo quasi si sgomita con il ritratto di donna in giallo di Modigliani, del 1918, mentre la parete più alta è dominata dall’incombere di un grande ritratto di John Dyer di Francis Bacon (Study for Portrait IX, 1957). Appena più sotto un Antigrazioso di Boccioni, del 1912, forse ritratto di Margherita Sarfatti (due altri bellissimi Boccioni, paesaggi dei primi del Novecento, sono appesi nei locali che erano destinati alla taverna). Difficile non restare soggiogati da questa sequenza di presenze che stipano lo spazio e conducono al pianerottolo superiore, dominato dal Risveglio della bionda sirena, la tavola di Scipione del 1929, di insolita grandezza.
L’impressione è che, a partire dal primo acquisto del 1969, un acquerello di Kandinsky (1918), il ragioniere non sbagliasse un colpo, muovendosi con prontezza e anche imprevedibilità sul mercato. Indicativo l’episodio che lo portò ad assicurarsi il pezzo top della collezione, bruciando grandi istituzioni museali: il Ritratto di gentiluomo con guanti e libro di Pontormo, databile al 1540, pubblicato da Roberto Longhi e comperato dall’antiquario Carlo Orsi. È facile ipotizzare che l’occhio di Cerruti fosse caduto su quel capolavoro proprio in virtù dell’oggetto che il personaggio tiene tra le mani: un libro. I libri infatti erano, oltre che oggetto del suo mestiere, una divorante passione. Pareti e vetrine sono stipate di volumi rari, spesso scelti per il valore e la qualità delle rilegature, come accade per la preziosa edizione della Recherche di Proust, in 13 tomi rilegati da Paul Bonet. Sono custoditi in una teca nella sala del biliardo. Nella stessa stanza è conservato anche l’Atlas maior, serie di 11 monumentali volumi, nei quali Willem e Joan Blaeu, cartografi olandesi, avevano raccolto nel 1635 le mappe di tutte le terre fin ad allora conosciute. Peccato solo che le vetrine stipate in quello spazio ostruiscano in parte la vista di un’esplosiva e indimenticabile carta di Emilio Vedova, del 1961.
La visita strategicamente si chiude nella stanza isolata in cima alla torretta. È un ambiente isolato al quale è stata risparmiata la trasformazione rococò e che conserva quindi la sua primitiva ingenuità di stampo provenzale. Al centro c’è un letto singolo, circondato da una serie di fondi oro che stipano ogni spazio; sulla parete di fronte sono appese tre opere di Bergognone, tra le quali due grandi e commoventi laterali di un polittico, con san Rocco da una parte e San Sebastiano dall’altra. Si racconta che il ragionier Federico, persona di profonda fede, avesse allestito in modo così accurato la camera, perché lì avrebbe voluto morire: il destino ha voluto che finisse i suoi giorni in ospedale a Torino, il 15 luglio del 2015. Nella camera è custodita anche una bellissima scultura in legno, una Madonna con il bambino, appoggiata a terra a fianco del letto. È riferita al Maestro della Santa Caterina Gualino, artista attivo in Umbria e Abruzzo nei primi decenni del Trecento. È un’opera che inevitabilmente riporta a un altro grande collezionista torinese, non meno bulimico e imprevedibile di Cerruti, Riccardo Gualino, al quale proprio in queste settimane è dedicata una mostra a Palazzo Chiablese. Tutt’e due obbediscono ad un modello di collezionismo che è impossibile classificare e che non si preoccupa di sconfinare in allestimenti (o, nel caso di Gualino, in residenze) che possono stupire e sinceramente anche un po’ sconcertare.