I mercati finanziari si aspettavano di più dalla Bce. Hanno avuto di meno e quindi si sono “irritati”, come bambini troppo viziati. Ma non hanno avuto poco. E’ vero, il volume complessivo del valore monetario dell’acquisto di titoli di stato non cambia, resta fermo a 60 miliardi di euro al mese; ma si allarga la fascia delle tipologie dei titoli acquistabili. I tassi già negativi del deposito di denaro presso la Bce scendono ulteriormente, ma solo di uno 0,1 in meno. Il prolungamento dell’acquisto dei titoli c’è, ma dura sei mesi e non l’anno intero, almeno per ora. Insomma Draghi ha voluto sottolineare che la Bce va incontro alle esigenze della finanza, ma con le redini tirate, per tenerne in qualche modo il controllo.

Si aspetta la mossa della Fed americana, probabilmente nella riunione del prossimo 16 dicembre, la quale dovrebbe innalzare i tassi, ma non si sa di quanto. C’è chi dice di poco, perché la prudenza non è mai troppa. D’altro canto le statistiche indicano sì un incremento dell’occupazione statunitense, ma sono assai più contenute per quanto riguarda il livello complessivo delle retribuzioni. Il che indica non solo che il rilancio dei consumi atteso non è travolgente, ma anche che la qualità dell’occupazione Usa non è un granché, essendo il suo aumento legato a settori di non eccelsa produttività. Quello che è certo – e gli effetti economici e soprattutto politici sono già evidenti in America Latina, con il rovesciamento dei governi Kirchner e Maduro – è che l’innalzamento dei tassi negli Usa risospingerà i capitali verso quel paese, con danni considerevoli, uniti a quello del crollo del prezzo del petrolio, per i Paesi emergenti.

Le due banche centrali muovono quindi in direzioni opposte, ma entrambe a velocità contenuta. Ma in ogni caso lo stato di salute del capitalismo negli Usa e in Europa continua a divaricarsi a favore del primo. Aprendo così una contesa.

In molti hanno sottolineato il fatto che le decisioni della Bce non sono state prese all’unanimità, ma a maggioranza. In effetti Weidmann, il capo della Bundesbank, ha segnalato apertamente di non avere gradito il secondo Quantitative Easing di Draghi. Continua quindi il braccio di ferro fra le vestali tedesche della politica di austerità nella sua versione più integralista e il Presidente della Bce, disponibile a tirare l’elastico degli statuti e dei trattati pur di salvare l’eurozona e la moneta unica dall’autodistruzione.

Un contrasto che non può essere sottovalutato. Non solo perché esso si ripercuote nella stessa Germania, ove la leadership di Angela Merkel appare meno inossidabile di solo qualche settimana fa. Quando ad esempio poteva permettersi di dichiarare aperture – poi rapidamente retrocesse – nei confronti delle migrazioni, almeno da alcune parti del mondo, come dalla Siria e prima ancora dall’est europeo.

Dichiarazioni che dimostravano la fiducia nella potenza assorbente della crescita economica e produttiva reale della Germania, ma che, nello stesso tempo, non potevano incontrare l’entusiasmo della destra interna e dei governi dei paesi satelliti del sistema produttivo tedesco allargato, ormai dediti alla pratica e alla cultura dei muri e dei fili spinati.

Forse c’è di più. Si profila uno scontro tra diversi modi di intendere e di governare il sistema capitalistico nell’attuale fase della globalizzazione. Che è segnata indelebilmente dal sorpasso degli Usa da parte della Cina, sancito anche dalla decisione del Fmi di accettare il Renminbi nel paniere delle monete di riserva mondiali. Obiettivo scientemente perseguito e raggiunto dalla leadership cinese in questi ultimi anni. Un nuovo tassello in quel lungo processo di transizione egemonica mondiale verso Est, entro il quale si sta consumando il “secolo americano” a favore del Beijing consensus. Di fronte al quale fa quasi tenerezza l’attuale dibattito in Europa se considerare o no la Cina una economia libera di mercato, con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista della possibilità di praticare o meno politiche protezioniste nei suoi confronti.

L’esempio cinese mostra come l’intervento dello stato sia funzionale e indispensabile alla crescita del moderno capitalismo e a un quasi indenne attraversamento delle crisi ricorrenti che inevitabilmente lo scuotono.
Il liberismo – e il suo figlioccio, il neoliberismo – nella sua forma più pura mostra la corda, se mai essa è effettivamente esistita nella realtà. Ma non gode di eccessiva salute neppure l’ordoliberalismo – inventato in Germania nel 1936 – che a differenza del primo non considera lo stato un problema, ma al contrario uno strumento utilissimo per il contenimento della potenziale ribellione sociale e per la migliore allocazione degli investimenti finanziari. Non è un caso che Otmar Issing, uno dei suoi propugnatori più tenaci e tra i primi sostenitori del Trattato di Maastricht, si sia pubblicamente pronunciato contro Mario Draghi accusandolo di interventismo politico, cioè di strabordare ampiamente dai ruoli istituzionali che dovrebbero essere della Bce e al contempo abbia criticato da destra la costruzione della moneta unica.

Con l’aggressione al welfare state, per spianare la strada a nuove fonti di accumulazione per il capitale finanziario, il ruolo dello Stato si è fatto sempre più ancellare della finanza privata. Sottolineando la separazione definitiva fra capitalismo e democrazia (anche quella classica, borghese, avremmo detto un tempo). Lo dimostra da ultimo il progetto europeo della costruzione di una Unione dei mercati finanziari, dove i corresponsabili della grande crisi vengono ulteriormente premiati.

Si tratta di uno Stato che non ha più confini nazionali, tranne frontiere artificiali, quindi mobili, antimigranti. Di una governance a-democratica sovrannazionale, nel caso della Ue, che si muove in direzione opposta a qualunque soluzione di tipo federale. Scartando l’unica cosa positiva del modello americano e assumendone tutto il peggio. Comprese, da parte dei maggiori paesi europei, le pulsioni all’interventismo militare in giro per il mondo.

In questo quadro non sembra esserci spazio alcuno per un capitalismo compassionevole né tantomeno per una socialdemocrazia come l’abbiamo conosciuta nei decenni postbellici. Anche per questo le parole di Papa Francesco paiono addirittura eversive.

Negli Usa sarebbe esagerato e fuorviante parlare di politiche keynesiane. In ogni caso il migliore e più preveggente utilizzo della leva monetaria si sposa con le mire egemoniche su scala mondiale con cui gli Usa intendono resistere al loro declino.

Come quelle contenute nei trattati sul libero commercio, quello del Pacifico già siglato e quello Atlantico in divenire – ma speriamo di no – che vorrebbero contenere la Cina da un lato e abbattere il residuo spazio giuridico europeo a favore delle multinazionali dall’altro. O come il maldestro tentativo, magari attraverso la riedizione di una sorta di bipolarismo con la Russia, di spegnere l’incendio mediorientale.