L’allucinazione metropolitana. O la metropolitana euforia psicotica. Secondo il senso che Deleuze dava al termine psicosi scrivendo della lingua di Melville («Introdurre un po’ di psicosi nella nevrosi inglese?…Melville inventa una lingua straniera che corre sotto l’inglese e lo travolge: è l’outlandish, o il Deterritorializzato, la lingua della Balena», in Gilles Deleuze/Giorgio Agamben, Bartleby, la formula della creazione, Quodlibet, 1993). Stiamo parlando di Fausto Romitelli. In particolare della versione del suo Professor Bad Trip eseguito dall’Ensemble Alter Ego (4 aprile) alla trentaduesima Rassegna di Nuova Musica. Opera in tre «lezioni», scritte tra il 1998 e il 2000. Versione trascinante.

Romitelli, morto a 41 anni nel 2004, era affascinato dal rock, dalla techno, dalla psichedelia musicale e non (infatti questo lavoro è ispirato a Henri Michaux e agli effetti della mescalina). Finora conoscevamo Professor suonato dall’Ensemble Ictus (su disco) e dall’Ensemble InterContemporain (alla Biennale Musica di Venezia del 2010), esecuzioni squisite, eccellenti. Ma il piglio che rimanda all’allucinazione metropolitana, alla psicosi deleuziana, alla violenza rock e techno, al tribalismo tecnologico vissuto come «nuova naturalità», questo piglio non l’avevamo ancora trovato. Alter Ego col direttore Tonino Battista non ha paura di sonorità «sporche» e di uno spirito del caos. Gli impasti sonori, che in Romitelli hanno quell’inimitabile timbro sintetico/acustico, anzi, come di effetto di sintetico ottenuto con strumenti acustici (l’apporto dell’elettronica è minimo), sono parte di un procedere lancinante, lisergico.

Il violoncello che esce in solo nella Lezione n. 2 (ottimo Francesco Dillon) è hendrixiano fino in fondo, la chitarra elettrica di Luca Nostro e il basso elettrico di Massimo Ceccarelli sono elettrici fino in fondo. Mica per certi tocchi qua e là alla Pink Floyd o alla Pan Sonic. Lo sono come tutti gli strumenti del gruppo (il flauto di Manuel Zurria, i clarinetti di Paolo Ravaglia, la tromba di Andrea di Mario, il violino di Aldo Campagnari, la viola di Luca Sanzò, il pianoforte di Oscar Pizzo, le percussioni di Fulvia Ricevuto) per via del «divenire elettrica» della musica, cioè espansa in una dimensione ultra-mondana, dove ogni trascendenza è distrutta e il processo di conoscenza e analisi degli spettri dei suoni è selvaggio.

Siamo in un altrove tutto terrestre, siamo nella lingua sonora «della Balena», per dirla, ancora, con Deleuze. Ma di «tempo della Balena», uno dei possibili, quello musicale dilatato, parlava anche Gérard Grisey, il profeta dello spettralismo di cui Romitelli si è molto nutrito. E a questa scuola che si vorrebbe non scuola, perché pratica la scomposizione fisica dei suoni e non dovrebbe fissare codici, ambiti, territori chiusi, nuove norme, è dedicata questa edizione della Rassegna maceratese, eredità del compianto Stefano Scodanibbio. Però è Romitelli più di tutti che non vede una scuola nello spettralismo ma ne interpreta il desiderio di espansione e di oltrepassamento. I suoi richiami al rock e affini, del resto, non sono mai citazioni o strizzatine d’occhio al popular, ma alfabeti per inventare una lingua inaudita.

Lo si apprezza tantissimo anche nelle due Domeniche alla periferia dell’impero, la prima scritta nel 1995/’96, la seconda nel 2000 come omaggio proprio a Grisey (4/4). Gli strumenti sono quattro: flauto, clarinetto (basso perlopiù), violino, violoncello. C’è un procedere a onde che si susseguono senza nessuna finalità narrativa, c’è una polifonia meravigliosa di linee perse nell’ultra-mondo psichedelico, ci sono sortite post-post-dolphiane affidate a Ravaglia che echeggiano i modi della free-improvisation. Gli strumentisti di Alter Ego scelgono qui un carattere quasi classico dei due brani attraverso un nitore assoluto e una assoluta compostezza. Scelta opposta, si direbbe, a quella di Professor ma il Romitelli della lingua musicale «fuori territorio» si riconosce benissimo.

Era geniale Romitelli. Inutile nasconderlo. Un suo lavoro quasi sconosciuto del 1991, Natura morta con fiamme, per quartetto d’archi ed elettronica, lo rivela emozionale come sempre, a nervi scoperti nell’elaborare, con la «preparazione» (in realtà l’elettrificazione) degli archi, una sonorità d’acciaio e di vetro, molto carica, e sono esaltanti certi episodi insurrezionali di linee che si intersecano con voluttà e frenesia. Il Quartetto Maurice (Georgia Privitera e Laura Bertolino, violini, Federico Mazzucco, viola, Aline Privitera, violoncello) ama i «viaggi» o trip romitelliani, quindi è perfetto. Spregiudicato rocker il chitarrista Luca Nostro nel Romitelli di Trash Tv Trance scritto nel 2002. Un pezzo completamente hendrixiano? Macché! Qui c’è la scienza passionale della potenza destituente del rock, c’è una ricercata arte della distruzione della musica contemporanea a-sistematica.

Volete un esempio di musica spettralista che nasce nella scuola ma fugge nello spazio libero? Con spirito meditativo? Ecco Treize couleurs du soleil couchant (1978) di Tristan Murail. Lo suonano proprio bene gli Alter Ego in quintetto (piano, flauto, clarinetto, violino, violoncello). Alternanza magistrale di suoni lunghi e brevi, di glissando e di silenzi. Il fondatore dello spettralismo, un’esperienza soprattutto francese, Gérard Grisey, non può sbagliare qui al Teatro Lauro Rossi. E infatti il suo Anubis et Nout (1983/’90) per saxofono basso, interpretato dal gran virtuoso e gran sapiente Gianpaolo Antongirolami, è un brano che convince. Parte con maniacali giochi di melodie, sembra dire che l’analisi meticolosa della struttura fisica dei suoni non produce di per sé alcuna ebbrezza o ulteriore conoscenza dell’ascolto, poi si inoltra in un’atmosfera di tenebra, in una serie commovente di suoni singoli tenui, sospesi, lasciati soli da pause lunghissime.

I seguaci Kaija Saariaho, finlandese, e Georg Friedrich Haas, austriaco, riescono soltanto ad annoiare con Cendres (1998) per flauto, violoncello e pianoforte e con Finale (2004) per flauto solo (5/4). Haas ha per sé tutta l’ultima serata. Si riscatta a metà con String Quartet n. 3, scenografico e spazializzato, affidato al Quartetto Maurice. Pubblico sul palco sdraiato su cuscini, buio assoluto, gli strumentisti ai quattro lati.

Per un po’ i suoni singoli dislocati, gli strofinii e i ticchettii sulle corde, gli episodi di trasognata solennità creano un gran fascino. Poi arrivano figure sonore banali, non c’è più un processo evolutivo ma eclettismo. Peccato. I quattro del Maurice? Al bacio.