Quando torna a pubblicare nel 1961, ospite della prestigiosa collana «Biblioteca di letteratura» diretta da Giorgio Bassani per Feltrinelli, Fausta Cialente è a tutti gli effetti una scrittrice rediviva perché il lungo dopoguerra, con le sue battaglie fra engagement e ritorno all’ordine, sembra avere dimenticato l’esordiente che nel 1930, unitamente ad una serie di racconti, pubblicò il romanzo Natalia doppiandolo con Cortile a Cleopatra (’36). Scrittrice da subito sottrattasi ad ogni dichiarazione di poetica, è effettivamente di difficile incasellatura, dato lo stile lontano sia dal neorealismo più o meno propagandistico sia dal tradizionale calligrafismo della prosa d’arte: né le giova, quanto alla ricezione, la lunga assenza dall’Italia nel ventennio fascista, per il trasferimento in Egitto tra Alessandria e il Cairo al seguito del marito, il compositore Enrico Terni. Non fu, tuttavia, un soggiorno inoperoso, il suo, grazie alla fitta collaborazione ai fogli antifascisti (e ai programmi di Radio Cairo) e grazie anche alla stesura del diario, a tutt’oggi inedito, di grande rilievo documentario come ci informa Francesca Rubini nel suo Fausta Cialente. La memoria e il romanzo (Fondazione Mondadori 2009). Tornata in Italia alla caduta del regime, la scrittrice lavora a quella che è l’opera più sua, anche nel senso della implicazione autobiografica, Ballata levantina, che ora esce da nottetempo all’interno di una riproposta complessiva, e benemerita (a cura di Emmanuela Carbé, pp. 421, € 19,50).

Frutto di un laborioso processo redazionale, perché Cialente è scrittrice di tempi lunghi e la sua ispirazione ha qualcosa delle risorgive carsiche, dopo la princeps del 1961 il romanzo venne riproposto con varianti dalla stessa Feltrinelli nel 1968 (l’anno più rapido e vertiginoso del secolo, perciò il meno adatto alla ricezione di una simile autrice), poi da Mondadori nel ’74, infine da Baldini Castoldi Dalai, con prefazione di Franco Cordelli, nel 2003 (e ne diede qui su «Alias» puntuale recensione Margherita Ghilardi): l’attuale edizione, spiega nella Nota al testo Emmanuela Carbé, ripristina quella del 1961 limitandosi ad emendarne la punteggiatura non sempre perspicua e ad accogliere alcuni elementi paratestuali (numerazioni delle parti, dei capitoli ecc.) normalizzati solo nelle edizioni successive. Romanzo complesso e inclassificabile quanto la sua firmataria, Ballata levantina è scandito fra i pieni anni Trenta e la guerra mondiale, ambientato fra Alessandria d’Egitto e il Cairo, ed è anzitutto un romanzo di formazione in senso letterale.

Racconta  la storia di Daniela, un’italiana orfana di entrambi i genitori, che vive ad Alessandria nella piccola corte di sua nonna, ex ballerina (ma cocotte vera e propria per il senso comune dei conoscenti) la quale educa la nipote ora sottoponendola a un dispotismo capriccioso ora invece cullandola in un vivere dolce e carezzevole. Introversa, attentissima alle mutazioni del suo corpo come alle vibrazioni di un’interiorità retrattile, Daniela vive tra il sole a picco sul silicio d’oro delle spiagge e il rigoglio violento della natura, nell’estasi panica da cui si lascia invadere, lentamente assaporandola: «il profilo dei suoi sentimenti era simile in tutto alle oscillazioni di una febbre». E intorno a lei c’è Alessandria, con i mille profumi e il bianco accecante delle case contraddetto da violente cromature, c’è la città cosmopolita dove si incrociano arabi, ebrei, africani, europei e ogni sorta di apolidi. (È la città insinuante, sensuale ed infinitamente umana che Konstantinos Kavafis ha cantato e che Cialente ritrae insinuandosi nelle sue pieghe morte, senza troppo concedere però all’estetismo del Quartetto di Alessandria di Lawrence Durrell di cui la scrittrice tradusse nel ’62 per Feltrinelli la quarta frazione, Clea, con lo stesso stile duttile e insieme prensile che utilizzò in un’altra memorabile versione, Giro di vite di Henry James per Einaudi, ‘86).

Con la protagonista Daniela, intanto, ferve il piccolo mondo dell’antifascismo e dell’esilio dove spiccano i coniugi Matteo e Livia, i quali fungono da reagenti nel percorso formativo perché l’uno è un maestro di ironia e disincanto, un piccolo Socrate per cui la vita è cognizione e continua autoriflessione, mentre l’altra incarna lo slancio partecipe, carnale, un’emotività ardente e mai placata, in grado di soccorrere il prossimo nello stesso momento in cui lo incalza e lo scuote. Daniela tuttavia sembra procedere per successive diversioni e sottrazioni, non esclusa una prudenza nel campo degli affetti che può sembrare reticenza ed è invece terrore dello scacco, perché l’amore ogni volta impallidisce o si inabissa con il profilo degli uomini che ha amato o creduto di amare (fatui, renitenti, inaccessibili) fino all’ultimo, Enzo, che si eclissa però in un altrove di cui non sapremo più nulla.

Dentro e fuori dalla Bildung di Daniela, nel frattempo, premono i fatti della guerra e gli avvenimenti politici che l’autrice non si limita a confinare nella cornice del romanzo ma li intromette come fossero una urgente, necessaria, quota del vissuto. È questo il senso di responsabilità e anzi di corresponsabilità sotteso ad ogni fatto della vita che è anche lo stigma ideologico di Fausta Cialente, comunista, come notò Cordelli nella sua prefazione del 2003: «Se oggi si volesse sapere qualcosa di ciò che di buono, di decente di dignitoso, di eroico furono i comunisti italiani, è alla Cialente che si deve ritornare». Perciò il finale di Ballata levantina è sospeso, incerto tra la vita e la morte della protagonista, tra il desiderio di andarsene, sottrarsi per sempre alla comunità degli affetti, e quello di punirsi e sparire, rescindendo comunque il legame sociale, evadendo il principio medesimo di corresponsabilità.

È qualcosa che, sia pure diversamente declinato, i lettori troveranno nei romanzi che integrano la bibliografia della scrittrice: Un inverno freddissimo (’66, nottetempo 2022), Il vento sulla sabbia (’72, nottetempo 2023: più d’uno dice il suo capolavoro) e Le quattro ragazze Wieselberger (’76, La Tartaruga 2018) che in realtà è un memoir sulla sua giovinezza vista dal ramo materno, un’agiata famiglia triestina. Quanto a lei, Fausta Cialente, a lungo ignorata o ritenuta una semplice adepta di Proust, bollata da chi pure diceva di apprezzarla (per esempio, Alfredo Giuliani) per un presunto stile «all’uncinetto», perseguiva viceversa la massima posta com’è evidente dal monologo di Daniela in un passo di Ballata levantina: «Se una verità stava sorgendo, la vedevo sfocata, oscillante sullo schermo come una proiezione incerta o sbagliata. L’avrei scoperta, un giorno? L’avrei trovata come si trova una moneta d’oro cucita dentro il materasso?» La ricerca della verità o, se no, meglio tacere: non ci viene altro messaggio dalle pagine di Fausta Cialente.