Nomen omen, dicevano gli antichi romani. Nel nome che si impone a un bambino, o che ci si sceglie, potendolo fare, c’è scritto il destino che vogliamo (o vorremmo) immaginarci riservato. Un gruppo che nella Germania ancora traumatizzata dall’aver preso d’assalto il mondo con il nazismo, nel ’39, uscitane sei anni dopo con milioni di morti, le macerie fumanti, e una spaccatura sul proprio territorio secca come un colpo di spada che avesse diviso in due un corpo vivo, scegliere di mettere in piedi un gruppo di rock sperimentale e chiamarlo Faust non fu una scelta presa alla leggera. Significava, anche, riferirsi direttamente al Faust letterario, a quell’opera tetragona, per le coscienze tedesche e occidentali in genere, in cui l’azzardo del voler conoscere oltre ogni limite, e inglobare il mondo nel piacere di un attimo senza fine significa giocare con il fuoco del demonio. Un azzardo supremo, quello evocato in versi da Goethe, che richiede una sfida suprema. Titanica, maestosa, ma, alla fin fine, folle, per il prezzo richiesto, vendersi l’anima.

IL PALCO DIVISO
Faust deriva da «faustus», felice, ma l’esito dell’omen, del destino-presagio è sempre un finale nel fuoco e nelle fiamme. Tutto questo hanno saputo – e sanno ancora evocare – i Faust, grandioso gruppo kraut rock tedesco da Wümme, e il primo a saperlo dire con parole semplici è stato il rocker e finissimo critico inglese Julian Cope in Krautrocksampler: «Non esiste gruppo più mitico dei Faust». Anche oggi, a mezzo secolo esatto dalla fondazione. Chi scrive queste note ricorda di aver assistito a un loro tardo concerto nel 1998. Il palco era diviso dalla sala da un’inquietante grata metallica. L’idea di trovarsi nell’officina di Vulcano, quando iniziò, più che il concerto, la sinfonia stordente di suoni primordiali e ossessivi era palpabile: fiamme ossidriche, schiocchi e sibili di lastre metalliche, sudore di corpi grandi, grossi e sudati, con un martello da fabbro a battere colpi fragorosi su un’incudine. Sono stati anche questo, i Faust. Una tempesta di suono e fiamme – con occasionali oasi di suono dolcissimo e quasi stupito di se stesso – che forse si portava dentro la memoria di un altro fuoco scatenato per il mondo dalla generazione dei loro padri. Quelli che avevano creduto all’imbianchino austriaco con i baffetti e un’enorme, perversa volontà di rivalsa additando i colpevoli del male in chi era più fragile e più debole di lui.
Tutto il kraut rock, in fondo, è interpretabile come la voglia di scrollarsi di dosso con motivato furore quanto era appena dietro le spalle: alcuni lo fecero cercando nella trance music ripetitiva la pace o l’esorcismo della rabbia, come i Can, o i Neu!, altri si imbarcarono e partirono per un simulato viaggio verso le stelle che metteva in conto anche la psichedelia californiana più estrema, come i Tangerine Dream. Qualcuno scelse derive mistiche, altri strutture ossianiche e maestose – aperte però a comprendere saettanti crepe dada nella solidità d’impianto – dove nascondere e rimuovere l’orrore, dove magari far risuonare quel grido trattenuto che nel resto del mondo si chiamò hard e progressive rock, e in Germania, invece, andò a incarnarsi in gruppi come gli Amon Düül e, soprattutto i Faust.

UNA COMUNE
I Faust esistono ancora, mezzo secolo dopo. Più che un’entità monolitica, una comunità di intenti (e una comune vera e propria, alle origini!) e un’estetica affinata in mezzo secolo che di volta in volta agglutina da un lato le energie di Jean-Hervé Peron e Werner Diermaier, e dall’altro quelle di Hans Joachim Irmler. Di volta in volta aperti a collaborazioni anche imprevedibili. Sta di fatto, però, che pur senza voler intonare posticci e mielosi peana ai bei tempi che furono, i quattro anni iniziali compresi tra il 1971 e il 1974 per i Faust furono davvero un incendio fruttuoso di idee, di forza propositiva, di libertà sconfinata. O, se volete usare la bella definizione di Julian Cope, che seppe coglierne la bizzarria creatrice con una frase: «La musica di un universo parallelo sospesa nel tempo e suonata su una radio vecchissima».
Musica dipanata su quattro dischi fondamentali a diversa temperatura emotiva (Faust, Faust Tapes, Outside the Dream Syndicate, assieme a Tony Conrad, IV, che ne decretò anche l’avvenuto riconoscimento in terra d’Albione, da cui anche le fondamentali Bbc Sessions ideate da John Peel, l’orecchio più addestrato a cogliere movimenti di faglia rilevanti nel composto mondo dell’art rock d’allora). Session che hanno lasciato il segno in generazioni di sperimentatori nella popular music, e anche in territori musicali che la popular music l’hanno bordeggiata. Adesso si aprono gli archivi: e, com’era da supporre per un gruppo che dell’improvvisazione e della sperimentazione faceva un passaggio obbligato, il bottino è sontuoso, mettendo assieme tutti i dischi ufficiali del primo quadriennio, e l’equivalente di tre cd di inediti. Si intitola Faust 1972-1974. 50 Years of Faust Ltd: otto cd, oppure sette ellepì con l’aggiunta di due singoli, coda molto chic e forse tutto sommato inutile con demo recording e b-side. In ogni caso, il sacro graal dei Faust, per chi ancora conserva il leggendario disco d’esordio con la radiografia di una mano in copertina. Quel disco che fece scrivere a Stephen Morris dei Joy Division: «Il disco con la copertina trasparente mi mandò fuori di testa. Mai sentito nulla di simile, qualcosa di assolutamente unico, l’opposto esatto di quanto i Rolling Stones e i Beatles stavano facendo». La parte più succosa va cercata nel materiale che trovate raccolto nel favoloso Punkt. Qui ci si aggira, davvero, dalle parti del mito, perché si tratta a tutti gli effetti di un disco ufficiale dei Faust mai uscito. Molto ricercato, e conosciuto solo dai bootlegger più scafati, come «L’album di Monaco». Inciso ai Musicland Studios di Giorgio Moroder nel 1974, segue dunque di un anno il momento magico di Faust IV e dei Faust Tapes, clamoroso pastiche anticipatore del post rock d’oggi venduto all’epoca in Inghilterra al prezzo di un 45 giri. Punkt è psichedelia assorta e ossessiva, proto-techno e sfarinatura di ritmi in un caos quasi primordiale, ricordo delle più delirate session per Smile dei Beach Boys e anticipazione clamorosa, in Knochentanz, della tromba filtrata da «retrofuturo» di un certo Jon Hassell. E lacerti di free jazz, protopunk slabbrato. Tutti elementi che trovate, in varia diluizione, nei due volumi Momentaufnahme I & II («istantanee»), schegge perdute, spesso sublimi, dagli anni in cui il gruppo viveva quasi blindato nel salone della scuola trasformata in studio di registrazione a Wümme, tra Amburgo e Brema. Il mito di Faust si consolida.