«Fauda», l’occupazione israeliana in una serie
Televisione Alla Festa di Roma presentata la fiction israeliana che attraverso il filtro del genere poliziesco racconta la violenza del conflitto al grande pubblico
Televisione Alla Festa di Roma presentata la fiction israeliana che attraverso il filtro del genere poliziesco racconta la violenza del conflitto al grande pubblico
Dalla sigla potrebbe sembrare una puntata di Distretto di polizia: facce da duri, pistole infilate dentro i pantaloni, flou vagamente pacchiani. E in fondo, proprio di uno speciale distretto di polizia si tratta: l’unità speciale delle Forze di Difesa israeliane nota come Mista’arvim, un corpo che opera sotto copertura in mezzo alla popolazione araba. A raccontarla non è un film ma una serie tv incredibilmente popolare in Israele: Fauda – che in arabo vuol dire caos – sviluppata da Lior Raz e dal giornalista Avi Issacharoff, la cui prima e per il momento unica stagione è stata proiettata durante la Festa del cinema di Roma.
La particolarità di Fauda però è di stare a metà tra la dimensione poliziesca e il mondo che queste unità antiterrorismo penetrano e controllano, quello delle zone e dei quartieri palestinesi, di cui viene restituita la «soggettiva» che va ad aggiungersi a quella degli agenti speciali israeliani, dunque solo coprotagonisti di una storia che sfugge dal monopolio della narrazione dominante che vuole queste terre divise tra terroristi e eroi della patria.
La vicenda ha inizio quando i vertici del Mista’arvim scoprono che il terrorista Abu Ahmed, detto «La Pantera», è ancora vivo nonostante loro pensassero di averlo eliminato l’anno prima. Sulle sue tracce viene così rimesso l’agente Doron, unico ad averlo visto in faccia e ritiratosi dal corpo speciale proprio dopo essersi illuso di aver ucciso la famigerata pantera. Il suo ritorno alla vita civile, alla cura della famiglia e di un vigneto che adesso occupa gran parte del suo tempo è il primo dei tanti cliché di un prodotto che sceglie consapevolmente il genere come veicolo di una narrazione più complessa: quella della vita quotidiana in Israele e nei Territori palestinesi e della spirale di violenza che incombe su di essa.
Fauda non si distingue per una regia particolarmente brillante e sconta anche qualche scorciatoia poco verosimile in fase di scrittura, ma si colloca comunque in quel solco tracciato dalle serie TV moderne incentrate proprio sull’impossibilità di collocare il bene e il male con precisione, e ha il merito di essere un prodotto della cultura di massa in un paese nel quale la questione palestinese ha vita difficile nelle narrazioni destinate al grande pubblico. Lo stesso Avi Issacharoff si è detto sorpreso del successo arriso a Fauda – fiutato anche dagli americani che preparano già un remake sulla scia dei successi dei tanti adattamenti di serie israeliane, da In Treatment a Homeland – in un paese dove in pochi vogliono sentir parlare del sangue che scorre nelle loro strade. A maggior ragione se si pensa che l’ intento dichiarato dei creatori è «mostrare all’audience israeliana che mentre loro si divertono a Tel Aviv e in altre città ci sono persone che quotidianamente ne pagano il prezzo».
Bashir è il fratello della Pantera, avrà a malapena venti anni e si deve sposare con la sua altrettanto giovane fidanzata; Doron e gli altri del Mista’Arvin sperano così che Abu Ahmed commetterà la leggerezza di presentarsi al matrimonio. Sotto copertura come uomini dell’azienda di catering incaricata di portare i dolci alla festa, Doron e un collega vengono scoperti e si scatena l’annunciato Caos, in cui a morire è anche l’innocente Bashir e la promessa sposa resta vedova il giorno stesso delle nozze. Un semplice espediente per mettere in moto la ben nota reazione a catena di violenza e odii contrapposti che segna il dipanarsi degli eventi. Raccontata con semplicità e attraverso il filtro del genere, ma proprio per questo in grado di entrare anche nelle case di coloro che non vorrebbero vedere.
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