Fattobene è un archivio del design anonimo italiano. Il progetto, a cura di Anna Lagorio (giornalista) e Alex Carnevali (fotografo), nasce dal desiderio di raccontare il paese attraverso i suoi oggetti quotidiani: qui, anche una colla, un mazzo di carte o un tessuto contadino, possiedono una storia meravigliosa, che val la pena scoprire. Molti di loro, sono sopravvissuti a due guerre mondiali, ma oggi rischiano di scomparire. Per questo, Fattobene si propone di dare vita a un atlante di cultura materiale in continuo aggiornamento. A novembre, inoltre, il sito aprirà il suo shop online, un’occasione per delineare l’architettura di un tessuto industriale sommerso e rendere disponibili piccoli manufatti preziosi, capaci di incarnare un frammento di storia.
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1. Tamarindo Erba
Carlo Erba, Milano, dal 1898
Nel 1837 Carlo Erba, farmacista dalla personalità vulcanica, rileva la farmacia Brera, nel cuore di Milano, e inizia a preparare alcuni composti ottenuti con nuovi procedimenti. Fra questi, compare fin da subito il tamarindo, seguito dalla magnesia e dall’estratto di canapa. Nel ’48, infatti, Carlo, insieme al medico Giovanni Polli, è il primo a sperimentare in Italia gli effetti dell’hashish, somministrando ad amici e parenti un preparato in compresse a base di «canapa, burro, zucchero, cannella, vaniglia e noce moscata». L’hashish è proposto per la terapia di cefalee, artrite e colera. Le pastiglie funzionano e Carlo decide di passare dalla produzione artigianale a quella industriale. Ben presto, si trasferisce in Piazza Duomo e lancia numerosi prodotti. Fra questi, il tamarindo riscuote particolare successo, entrando ben presto nel bar di famiglia della borghesia milanese per poi diffondersi in tutta Italia, grazie anche alla campagna pubblicitaria firmata dall’illustratore Marcello Dudovich. Negli anni ’70, il marchio è stato acquisito da Cedral Tassoni che produce e imbottiglia nello stabilimento di Salò, mantenendo inalterati sia la ricetta che la confezione originale.
2. Crystal Ball
Burago di Molgora (Monza-Brianza), dal 1947
Deve essere stato l’amore per le bolle di sapone a trasformare il chimico Claudio Pasini in un inventore di prim’ordine. Nel 1947, appena due anni dopo la fine della guerra, Pasini lancia sul mercato Le bolle fatate, una pasta speciale con cui realizzare palloncini colorati che non scoppiano mai. Per Pasini, il fascino di questo gioco è enorme. Del resto, la storia delle bolle di sapone è ricca di appassionati illustri: da Isaac Newton, che le celebra nei suoi studi sull’ottica, al fisico ottocentesco Antoine Ferdinand Plateau, che crea una macchina a manovella per studiarle da vicino. Nonostante i precedenti gloriosi, però, l’idea arriva nel momento sbagliato: nel dopoguerra, infatti, la maggior parte delle famiglie italiane non può permettersi di spendere denaro per acquistare giocattoli. Così, Pasini è costretto a mettere da parte il progetto fino al ’68, quando la pasta esce sul mercato con il nome Crystal Ball. Il successo è immediato e cresce fino a raggiungere il suo apice negli anni ’80. Oggi, l’azienda – gestita dal figlio Giovanni – continua a produrre negli stabilimenti di Burago di Molgora, in Brianza, creando tubetti di meraviglia capaci di cristallizzare una bolla in un eterno presente.
3. Cannelli di zolfo
Rimedio popolare contro torcicollo e dolori articolari, Genova, XIX secolo
I cannelli di zolfo arrivano in Italia nel XIX secolo, grazie ai traffici commerciali fra Genova e il Sud America. Secondo alcune fonti, sarebbero stati i marinai genovesi a scoprire questi «cilindri color oro» e a importarli in Italia per le loro virtù terapeutiche. Anche se non ci sono riscontri scientifici che ne dimostrino l’efficacia, i cannelli di zolfo continuano ad essere una cura molto popolare e si acquistano sciolti in farmacia (di solito in numero dispari, da tre a cinque per volta). L’uso è semplice: basta passare il cilindro sulla zona dolorante fino a quando si sente uno scoppiettio. Il rumore segnala che lo zolfo è entrato in azione, assorbendo l’aria in eccesso all’interno del corpo. In alcune situazioni, il cannello può rompersi bruscamente: in questo caso, si sciacquano i pezzi in acqua corrente per scaricare la tensione accumulata e si prosegue il trattamento fino a sfiammare l’intera zona. Un altro modo per utilizzare le parti frantumate è quello di pestarle e scioglierle in acqua calda per fare pediluvi e impacchi sulle zone doloranti. Curiosamente, il rimedio è praticamente sconosciuto al di fuori della Liguria.
4. Carte da gioco Modiano
Trieste, dal 1884
Le carte arrivano in Italia nel Medioevo: dalla Sicilia, si diffondono fino all’Europa del Nord: la passione è talmente forte che un editto di Parigi del 1377 vieta il gioco nei giorni feriali per evitare distrazioni. L’iconografia rispecchia la società del tempo: il mazzo si popola di re, regine e cavalieri, spesso usati con intento ironico. Così, la regina vale più del re per sottolinearne la debolezza. Con la rivoluzione francese, il popolo prende il sopravvento e le carte dai valori più bassi (asso e tre), diventano le più potenti del mazzo, «tagliando la testa» ai nobili. Da allora, il numero dei giochi cresce a dismisura e così l’esigenza di nuovi mazzi: fra i centri autorizzati a stampare, fa la sua comparsa Trieste. Nell’800, la città diventa una piccola Las Vegas sul mare: incantati dall’atmosfera tollerante, imprenditori e mercanti decidono di avviare nuove industrie. Sorgono così fabbriche di carte e cartine di sigarette: due generi voluttuari che crescono di pari passo. Nel 1868, anche Saul David Modiano, inizia a confezionare cartine per il tabacco: il prodotto è elegante e riscuote grande successo. Nel 1884, Saul mette queste competenze a servizio della stampa di mazzi da gioco: la grafica è strepitosa e diventa ben presto un oggetto del desiderio per i giocatori internazionali. Gli illustratori Modiano celebrano il mito del gioco, del fumo, della città di frontiera, dando vita a uno stile di vita unico. Oggi, l’azienda continua a produrre negli stabilimenti triestini, aggiudicandosi commesse importanti, come quella per la fornitura del torneo mondiale di poker: 50.000 mazzi speciali, a prova di lenti o micro-camere con cui i bari contemporanei tentano la fortuna.
5. Sapone Reseda
Genova, dal 1903
Alla fine dell’800, la Riviera fra Portofino e Marsiglia è considerata la zona migliore del mondo per la produzione di saponi. I maestri saponieri si stabiliscono qui, richiamati dalla qualità delle materie prime: olio di oliva e soda naturale ottenuta dalle ceneri delle piante marine. Fra questi, il genovese Virgilio Valobra adotta il metodo in caldaia a cielo aperto di origine marsigliese: dopo la cottura, il sapone grezzo in forma di fiocchi è messo a stagionare per sei mesi. Una volta essiccati, i fiocchi sono lavorati con ingredienti preziosi, come essenze, vitamine e profumo. A questo punto, il sapone è pronto per essere tagliato manualmente in panetti e timbrato con una stampatrice che imprime il sigillo dell’azienda. Se non si utilizzano subito, le saponette devono essere conservate in un luogo asciutto. Il prolungamento della stagionatura, anziché deteriorarle, ne migliora la qualità e la durata.
6. Carta aromatica d’Eritrea
Piacenza, dal 1927
La storia dei profumatori d’ambiente inizia nell’800, quando in Europa scoppia la moda della «terapia olfattiva»: i medici sono convinti che esista un legame fra il naso e i vari organi interni e prescrivono ai pazienti sacchetti aromatici da indossare per guarire malattie nervose, come la malinconia o l’isteria. Anche il metodo della fumigazione è all’ordine del giorno per combattere le malattie da contagio. Così, sulle navi, i marinai bruciano una miscela di aceto e polvere da sparo, mentre gli ospedali disinfettano gli ambienti con ginepro e rosmarino. Per Vittoriano Casanova, farmacista piacentino, l’occasione di creare il proprio «mix terapeutico» si presenta dopo un viaggio in Eritrea e Somalia: in Africa, studia i sistemi di purificazione di palazzi e ospedali e, al rientro, porta con sé estratti, muschi e resine sconosciuti in Italia. Il farmacista sperimenta con oltre trenta essenze, polverizzandole nel mortaio e lasciandole in infusione in alcol per alcune settimane. Quando la miscela è pronta, la versa su risme di carta assorbente, che, dopo l’asciugatura, vengono tagliate e fustellate per creare dei libretti. Ancora oggi, la Carta d’Eritrea è prodotta con lo stesso procedimento per dare vita a un «quadernetto olfattivo» dalle note legnose e fragranti.
7. Coccoina
Voghera (Pavia), dal 1927
Agli inizi del ‘900, la colla in barattolo di vetro è molto popolare in Francia. Così, per sbaragliare la concorrenza, Aldo Balma fa di più: inventa una confezione infrangibile in alluminio, la dota di un portapennello centrale e le conferisce un aroma squisito. Per produrla, fa cuocere a bagnomaria destrina di fecola di patate e acqua. Una volta ottenuta una consistenza morbida, aggiunge glicerina ed essenza di mandorla. Dopo la cottura, versa la pasta nei barattoli e la lascia decantare per un mese. Dopo questo periodo di stagionatura, la colla è pronta per essere usata. Ma il vero colpo da maestro di Balma è quello di aver creato un profumo speciale, a base di marzapane, capace di imprimersi stabilmente nella memoria collettiva.
8. Taccuino Tassotti
Bassano del Grappa (Vicenza), dal 1957
Nel 1657, Giovanni Antonio Remondini apre un negozio di tessuti a Bassano del Grappa e dedica un piccolo spazio alla vendita di immagini sacre per la protezione di case e di stalle. Le icone portafortuna sono un successo e i clienti arrivano anche da luoghi lontani pur di accaparrarsene una. Così, Remondini abbandona la tessitura per dedicarsi interamente a questa attività. In men che non si dica, apre due rotte commerciali, una verso il nord Europa, l’altra a est, fino all’Oceano Pacifico. Nel ‘700, il commercio è talmente forte che i Remondini sono conosciuti in tutto il mondo e danno lavoro a più di mille operai: oltre alle immagini sacre, producono giochi popolari, atlanti, libri illustrati, carte da parati. Oggi, l’eredità dei Remondini è stata riscoperta da Giorgio Tassotti che, dal 1957, ha iniziato a riprodurre questo incredibile patrimonio iconografico imprimendolo su taccuini, quaderni, matite.
9. Tagliere per la rigatura dello gnocco
Attrezzo tradizionale, data sconosciuta
Il «paese del Bengodi» è un luogo immaginario, dedicato all’abbondanza: il centro del villaggio è dominato da una grande montagna di formaggio, che gli abitanti usano per cuocere gli gnocchi. Quando sono pronti, gli gnocchi rotolano giù e i passanti sono pronti a raccoglierli, come racconta Boccaccio nel Decameron. Nel medioevo, gli gnocchi rappresentano un simbolo di opulenza: morbidi, fragranti e ben conditi, fanno parte del repertorio gastronomico delle feste. Nei ricettari, appaiono le prime indicazioni per prepararli: qui, si legge di mescolare farina o pane secco con formaggio o rosso d’uovo, fino ad ottenere un impasto da cuocere in acqua bollente (o meglio ancora in brodo di cappone, come accade nel Bengodi). A poco a poco, l’impasto accoglie ingredienti sempre nuovi (barbabietola, zucca, zafferano) per stupire i commensali con colori straordinari. Del resto, nel Rinascimento, la tavolozza gastronomica non è meno importante di quella pittorica. Con la scoperta dell’America, gli gnocchi incontrano le patate e danno vita ad un sodalizio duraturo. Grazie alle patate, infatti, l’impasto diventa flessibile e si presta alla creazione di nuove forme e texture: la rigatura, ad esempio, è un processo di scanalatura che permette di accogliere meglio i sughi a base di pomodoro, altro ingrediente esotico, destinato a un futuro di successo.
10. Fermagli Leone
Annone Brianza (Lecco), dal 1850
La storia della graffetta è costellata da personaggi bizzarri. A metà dell’800, sono molti gli inventori che lottano per accaparrarsi il brevetto del «fermaglio perfetto». L’obiettivo è riuscire a trovare il modo migliore per piegare l’acciaio e renderlo abbastanza elastico per stringere i fogli senza rovinarli. L’impresa coinvolge menti brillanti da una parte all’altra del pianeta: c’è chi costruisce nuovi macchinari, chi disegna prototipi fantasiosi, chi scrive trattati (come il filosofo inglese Herbert Spencer). Nel 1899, il norvegese Johan Vaaler (comunemente indicato come il padre della graffetta), lancia un esemplare di clip molto simile a quello in uso ancora oggi. In realtà, il disegno definitivo si deve all’inglese Gem Manufacturing che, alla fine dello stesso anno, realizza la versione di maggiore successo commerciale. Le «Gem Clip» sostituiscono ben presto gli spilli e sono accolte con entusiasmo da parte degli impiegati: gli spilli, infatti, bucavano i fogli ed essendo prodotti in ferro, tendevano ad arrugginirsi, rovinando la carta. In Italia, le nuove esigenze dei colletti bianchi sono raccolte dalla ditta Giuseppe Dell’Era: i fermagli Leone diventano simbolo dell’Italia industriale e produttiva, dando vita a un’icona di design che, dai grandi centri del Nord, ben presto si diffonde in tutta Europa. Ancora oggi, sulle scatole color verde oliva, campeggia il marchio originale, un leone che regge uno scudo istoriato, realizzato appositamente dal fondatore dell’azienda, Giuseppe Dell’Era.
11. Amarena Fabbri
Bologna, dal 1915
Gennaro Fabbri possiede una dote rara: quella di saper leggere i suoi tempi e prevederne le esigenze. Per questo, quando nel 1905 apre una distilleria, non si limita a produrre alcolici, ma fa molto di più: li dota di un potere evocativo, capace di entrare subito nell’immaginario collettivo. Nascono così liquori come il Primo maggio, su cui campeggiano due lavoratori con falce e martello, o l’Amaro Carducci, un omaggio al poeta «fresco» di Nobel. Con il trasferimento a Bologna, l’azienda si lancia sul mercato degli sciroppi: qui, nel 1915, Rachele, la moglie di Gennaro, mette a punto una ricetta destinata ad incantare il pubblico, la Marena con frutto. All’inizio, lo sciroppo è venduto in damigiane, ma Gennaro decide di far produrre un contenitore speciale, affinché le sue amarene si facciano notare nei bar più eleganti del paese. Il primo modello assomiglia a un vaso da farmacia. A Gennaro non piace e così chiede al ceramista faentino Riccardo Gatti di realizzare qualcosa di unico. Gatti crea un vaso a fiori bianco e blu, rievocando le cineserie tanto di moda all’epoca. Le amarene piacciono anche ai Futuristi, che decidono di riempirle di grani di pepe e usarle come ingrediente «esplosivo» in una loro ricetta. Oggi, l’azienda, alla quarta generazione, esporta in 110 paesi, offrendo un’icona senza tempo e un pezzo di storia a portata di tutti.
12. Coperta Lanificio Leo
Soveria Mannelli (Catanzaro), dal 1873
Il lanificio Leo è il più antico della Calabria. La sua storia inizia nel 1873, quando i fratelli Antonio e Giuseppe decidono di portare a Carlopoli un filatoio a 60 fusi: la reazione del paese è enorme, tanto che la macchina viene ribattezzata un «diavolo a 60 mani». Fino a quel momento, infatti, la tessitura è un affare domestico: ogni abitazione possiede un telaio e le donne filano panni come l’arbaso o la frandina, per pastori e borghesi. I Leo lavorano una lana pregiata, la gentile di Puglia, un incrocio fra una pecora autoctona e la merinos spagnola, arrivata in Calabria nel ‘400, con Alfonso V d’Aragona. Ma l’impianto, azionato dalla forza animale, non riesce a soddisfare le richieste crescenti: così, la famiglia si sposta alla ricerca di nuove fonti energetiche: prima a Corazzo e poi a Bianchi. Qui, usano l’acqua del fiume, ma la siccità estiva impone un arresto forzato del lavoro. Così, quando negli anni ’30 sentono la notizia dell’arrivo dell’energia elettrica a Soveria Mannelli, sanno che quella è la loro destinazione. La diffusione dell’elettricità fa nascere un intero distretto della lana: in breve tempo, sorgono oltre quaranta opifici. Ma, l’ottimismo dura poco: nel dopoguerra, con la massiccia emigrazione verso nord, le aziende si svuotano e, una dopo l’altra, chiudono. Anche i Leo se la vedono brutta, ma resistono. A metà degli anni ’90, con l’arrivo di Emilio Salvatore Leo, il lanificio cambia strada: Emilio decide di dar vita a un luogo aperto, collaborando con artisti, designer, musicisti internazionali. Le macchine ottocentesche diventano il cuore pulsante dell’azienda: l’usura del tempo, anziché un difetto, entra a far parte del processo produttivo. In questo modo, la «piccola anarchia meccanica» trasforma ogni tessuto in un oggetto unico, dando vita a tessuti preziosi, attraversati dai segni del tempo.