Fatih Akin, la melassa sul genocidio armeno
Venezia 71 «The Cut» del regista turco racconta una terribile pagina della storia ma senza avere il coraggio di prendere posizione. Un'opera irrisolta
Venezia 71 «The Cut» del regista turco racconta una terribile pagina della storia ma senza avere il coraggio di prendere posizione. Un'opera irrisolta
Può a un film bastare il suo soggetto? Viene da chiederselo uscendo da The Cut, film «cinematograficamente» brutto (in gara ma perché?) per costruzione narrativa, scelte visuali, format da coproduzione internazionale obbligato. Però a Venezia 71 The Cut è arrivato con un appeal mediatico extra-cinematografico (che ormai sembra prevalere), come il film di un regista turco, pure se Akim vive in Germania, che affronta il tabù del suo paese d’origine il genocidio armeno, che non in molti (lo hanno fatto per primi i francesi) riconoscono come tali.
Nel 1915, mentre l’Europa è devastata dalla Prima guerra mondiale, i turchi deportano e eliminano migliaia e migliaia di armeni cittadini dell’Impero ottomano. Giornalisti, intellettuali, poeti, contadini, artigiani – il protagonista di The Cut è un fabbro – anziani, bimbi, uomini, donne vengono messi in marcia nel deserto dove muoiono di fame, di sete, per violenze subite. Per molti storici il genocidio armeno è una sorta di prova dell’olocausto – c’erano ufficiali tedeschi presenti.
Il fatto è che, a parte un cartello iniziale, Akin offre zero interpretazioni a quanto accadde, scegliendo il punto di vista della «vittima». Non degli armeni, non solo almeno, ma delle vittime tout court, che negli sballottamenti della Storia finiscono per somigliarsi. Non sono le ragioni politiche, economiche, culturali che lo interessano ma appunto la vittima, con cui il regista si mette al riparo da ogni assunzione di responsabilità – e forse dai rischi se pensiamo che negli anni ’70 lo storico Taner Akcam è stato condannato a dieci anni di prigione per avere parlato del genocidio e costretto alla fuga all’estero, in America dove vive.
Vittime sono gli armeni, nella figura del protagonista privato di parola (metafora sul silenzio intorno al genocidio?), e poco dopo gli stessi turchi presi a sassate da coloro che ne hanno subito le persecuzioni alla fine del conflitto mondiale, e vittime sono gli ebrei, con cui il personaggio di Nazaret, l’armeno errante (l’attore Tahat Rahim visto in Il Profeta di Audiard) viene scambiato.
Non credo che questo film dica molto sul genocidio degli armeni a chi lo vedrà. E quel «è importante che se ne parli» lo rende ancora più fastidioso. Si ha infatti l’impressione di una sorta di melassa del pensiero, perché come diceva già lucidamente Fortini la costruzione della vittima cela qualsiasi altra ragione che sta nella violenza commessa dai poteri. Cosa è accaduto, dunque nel passato, e cosa accade oggi in una Turchia sempre più contraddittoria, che reprime le proteste e massacra i suoi cittadini a Gezi Park e rifiuta categoricamente di assumersi le responsabilità politiche di quanto è accaduto.
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