Ci separava una distanza di 600 chilometri e al telefono neanche rispondeva. Mai. Lo scambio di informazioni, andato avanti per oltre un mese, procedeva esclusivamente via fax. Lui, dalla sua residenza di via Nomentana a Roma; noi, dalla realtà di provincia in cui operavamo. A metà anni ’90 il telefax era lo strumento-base per ricevere o inviare comunicati nelle redazioni dei giornali. Con l’età avanzata, radicalizzandosi nei propri tratti caratteriali, un personaggio come Bruno Zevi poteva concedersi qualche atteggiamento, anche quello di non sopportare il suono del gracidio che certe voci assumono al telefono, ovvero di selezionare tramite fax i latori di un messaggio dai postulanti. Storico dell’architettura, nonché fautore di molteplici intraprese e polemista innato, era approdato, a proposito di radicalizzazione, al partito radicale di Marco Pannella del quale ammirava acume e genialità.
Era stato pubblicato un articolo che riguardava l’architetto sulle pagine culturali del quotidiano dove noi lavoravamo.

Nell’articolo veniva rievocato un avvenimento ormai lontano, risalente al 1953, che lo aveva coinvolto in una polemica a distanza. Nella nostra città ancora non c’era un giornale quotidiano, né l’università (sarebbe sorta qualche anno dopo). Proprio per avviare un progetto in tale direzione, Zevi aveva proposto a politici e intellettuali del posto l’apertura di una scuola di studi superiori di architettura, a cui avrebbe fornito un proprio contributo, che risultasse di preludio all’istituzione di una sede universitaria. Per rivalità con accademici del vicino capoluogo, che intendevano conservare l’unicità della loro università nella regione e se mai rafforzarla con l’insediamento di nuove facoltà, la proposta di Zevi venne snobbata. La seconda università regionale vide comunque la luce nel 1955, anche se aspetta ancora il corso di laurea in architettura.

Negli anni ’90 Zevi, prossimo ottuagenario, in seguito a quell’articolo che aveva raschiato la ruggine a un progetto lasciato sospeso, accettava la provocazione di rimettersi in discussione, deciso a concretizzare ciò che era fallito 40 e più anni prima. Il nostro giornale, come tutti i giornali che montano un fatto quando c’è di mezzo il personaggio, colse al volo l’opportunità di ospitare gli interventi (impetuosi) di un maestro della disciplina. L’ambiente accademico della città fu messo in subbuglio mentre fioccavano offerte di contenitori culturali, da tutta la provincia, per accogliere il corso. Intervennero a sostegno notabili e ordini professionali. Insomma era scoppiato il caso, per mezzo della testata giornalistica locale, e si fece boom. Dopo il quale si dispersero i frammenti dei discorsi enfatici e delle chiacchiere salottiere. Rapidamente. Così come in modo subitaneo il caso era stato imposto.
Ancora una volta illuso e deluso, l’architetto romano uscì di scena appena comprese di essere stato adulato da una classe dirigente, di ristrette vedute, che badava solo a guadagnare una temporanea ribalta giornalistica. Bruno Zevi arrivò a vedere l’alba del nuovo millennio, andandosene ottantaduenne nel gennaio del 2000. È passato un quindicennio e saranno stati in pochi a ricordarlo. Spostando cumuli di cartelle impolverate, è capitato di ritrovare quei fogli faxati, ingialliti e ormai illeggibili, che ci fecero finire, anonimi cronisti di provincia, con Bruno Zevi in prima pagina.