La notizia positiva è che il museo sul fascismo a Roma non si farà. La mozione che si sarebbe dovuta discutere e votare in Campidoglio il 6 agosto è stata ritirata dalla consigliera comunale Gemma Guerrini, che l’aveva firmata, a seguito delle giuste obiezioni dell’Anpi e di tutte le associazioni della Casa della Memoria e della Storia di Roma. A porre il diniego ufficiale al progetto è stata la sindaca Raggi.

Intervenuta per ribadire l’identità antifascista di Roma Medaglia d’oro alla Resistenza.  La vicenda tuttavia non soltanto solleva, di nuovo, il complesso e irrisolto rapporto tra lo Stato italiano, la sua popolazione ed il passato fascista ma, come si avverte scorrendo il testo della mozione, chiama in causa l’ambiguità europea nella lettura del nostro comune passato.

Sul piano nazionale la questione dei conti col fascismo è tema pluridecennale. Il nostro è un Paese dove molto pesante è stato il lascito della «mancata Norimberga italiana» ossia di un processo, prima ancora che giuridico, paradigmatico e catartico di elaborazione del passato fascista. È nel quadro geopolitico della Guerra Fredda che hanno origine le motivazioni del fallimento dell’epurazione; del reintegro e promozione del personale fascista ai vertici degli apparati di forza dello Stato repubblicano e delle forze armate; della parallela espulsione di cinquemila partigiani dalla polizia e dell’istruzione di processi contro migliaia di loro per «fatti legati alla Guerra di Liberazione» ovvero la radice storica della nostra democrazia costituzionale.

L’impunità per le migliaia di militari italiani iscritti nelle liste delle Nazioni Unite che avrebbero dovuto rispondere di crimini di guerra compiuti nei Balcani, in Africa, in Urss e Francia contribuì in modo decisivo alla rimozione delle responsabilità storiche del fascismo, della sua classe dirigente e delle classi proprietarie e della piccola e media borghesia che lo avevano sostenuto. La «continuità dello Stato», insegna Claudio Pavone, determinò una pesante ipoteca sullo sviluppo della vita democratica e sull’applicazione della Costituzione, che rimase «congelata» fino alla metà degli anni Cinquanta quando finalmente videro la luce il Consiglio Superiore della Magistratura e la Corte Costituzionale.

I dati storici raccontano che negli anni Sessanta provenivano dal regime fascista 62 prefetti di prima classe su 64, 64 su 64 di seconda classe, 7 ispettori generali su 10, 120 questori su 135, 139 vicequestori su 139. I conti con quelle vicende però non sarebbero rimasti solo faccenda della pubblica amministrazione ma avrebbero chiamato in causa gli italiani ed il loro consenso al regime, alle guerre, alle leggi razziali, alla persecuzione degli antifascisti, alla soppressione della libertà di parola e stampa, alla cancellazione di tutti i partiti e sindacati, alla costruzione di centinaia di campi d’internamento in tutto il Paese.

È con tutto questo che gli italiani non hanno mai fatto fino in fondo i conti ed è su questa questione, più che con «proposte museali», che si dovrebbe intervenire per contrastare i rinascenti fenomeni di intolleranza, razzismo, discriminazione sociale e di genere che si manifestano nel cuore della crisi del nostro presente. Leggendo la mozione ritirata, che pure si apre con le migliori intenzioni antifasciste, non è difficile infine avvertire l’eco della indecorosa risoluzione del Parlamento europeo che il 19 settembre 2019 ha equiparato il nazismo al comunismo, soprattutto nei due riferimenti alla Guerra Fredda (che non c’entra nulla col fascismo italiano) e al «Museo del Terrore» di Budapest nell’Ungheria di Viktor Orbán.

Così come la retorica celebrativa della Resistenza non ha reso un buon servizio ai 20 mesi più luminosi della storia del nostro Novecento, tanto meno sarà una musealizzazione del fascismo a produrre quegli antidoti culturali di cui oggi è indispensabile innervare il tempo presente.

Il regime di Mussolini non fu la «parentesi» cara a Benedetto Croce, piuttosto un moto che pervase al fondo la società italiana divenendo – come scrisse Piero Gobetti – «autobiografia della Nazione». Sta nella prassi concreta e nella promozione dei caratteri di rottura politica e progresso sociale della Costituzione la liberazione dai fantasmi del passato; la presa di coscienza della vicenda storica nazionale; il superamento definitivo dalla continua revisione auto-assolutoria di quella dittatura moderna che gli italiani hanno creato ed esportato nel mondo.