La scena è spoglia, l’azione essenziale: una giovane donna, nuda, afferra un paio di forbici, si taglia una ciocca di capelli, la incolla sul piccolo specchio da toilette che ha di fronte, ripete lentamente gli stessi gesti sino a comporre una stella di David. Ebrea, forse l’azione più emblematica di Fabio Mauri, fu presentata nell’ottobre 1971 a Venezia e riproposta in seguito più volte dall’artista, fino al re-enactment postumo realizzato lo scorso gennaio a New York dalla galleria Hauser & Wirth. «Ricompongo con pazienza con le mie mani, l’esperienza del turpe. Ne esploro le possibilità mentali», scrisse Mauri di questo lavoro: ma il turpe, l’abiezione della Shoah può ricomporsi come finzione? Non è dunque la distruzione del popolo ebraico essenzialmente non simbolizzabile, irrappresentabile, un evento, sostenne Adorno, che dimostra il fallimento della cultura, la sua incapacità di fare i conti con l’inferno reale di Auschwitz?
Questa tensione traumatica tra choc e sottrazione, tra perdita e impossibile ritorno, attraversa tutta la riflessione di Mauri intorno al totalitarismo novecentesco, a partire dall’azione Che cosa è il fascismo, presentata negli Stabilimenti Safa Palatino a Roma nell’aprile 1971, in cui giovani attori vestiti con divise d’epoca reinterpretavano con straniato realismo una cerimonia fascista, i Ludi Juveniles. Una modalità che costringe lo spettatore contemporaneo a osservare in se stesso gli effetti dell’estetica fascista, a misurarne al presente, in atto – come ben mostra appunto la recente monografia di Valérie Da Costa, Fabio Mauri Le Passé en actes / The Past in Acts (edizione bilingue francese e inglese, les presses du réel, pp. 283, euro 36,00) – tutta la potenza di lutto, ritrovata attraverso un’operazione di filologia storica spinta ai limiti di una tormentosa resurrezione.
Ricco di testimonianze e materiali visivi inediti, il libro esamina l’insieme della produzione di Mauri, soffermandosi in particolare sul ruolo della performance, vera spina dorsale del suo percorso, medium trasversale, scrive la storica dell’arte francese, in cui si fondono scrittura, pittura, installazione, teatro, cinema. Da Costa offre così una prima, indispensabile ricognizione storica di un’opera che resta, al di là della sua recente fortuna internazionale, intimamente sfuggente, inclassificabile, tanto restia a farsi assimilare in una tendenza più ampia quanto impensabile fuori dalle urgenze della propria epoca, quegli anni settanta italiani in cui il sommovimento generale, le speranze di cambiamento alimentate dal ’68 si tramutavano rapidamente nella spirale terribile delle trame neofasciste e della lotta armata.
Il fascismo non rappresentava in effetti per Mauri un fatto del passato, ma una potenza negativa sempre attuale. Riattivare attraverso i corpi dei performers non solo l’immagine – le uniformi, i paraphernalia, le reliquie oscene –, ma precisamente il potere di fascinazione del nazifascismo storico, la sua fisicità, e al tempo stesso l’anestesia morale che esso era capace di indurre – e tutto questo di fronte a un pubblico a sua volta investito non solo del ruolo di testimone ma di quello assai più scomodo di voyeur e complice –, era un modo per esporre la natura del totalitarismo, la vera e propria trasformazione e fisica e morale che esso aveva indotto negli individui, e il permanere, nel segno della teatralità, di tale potere perturbante anche nello splendente universo consumista, come notò Susan Sontag in un saggio famoso, Fascinating Fascism (1974).
Forse ancora più esplicita è da questo punto di vista è l’azione Ideologia e natura, eseguita per la prima volta nel 1973. Una giovane donna, in divisa da Giovane Italiana, si spoglia lentamente accanto a un plinto bianco sino a restare completamente nuda, per poi rivestirsi in un ciclo senza interruzioni. La «meccanica ipnotica» dell’azione, come scrive Valérie Da Costa, crea un «sentimento d’assenza», una complicità tra performer e spettatore. La metafora del corpo in uniforme si carica così di ulteriori risonanze, creando un corto circuito tra memoria dell’arte (la statua sul piedistallo, la modella nell’atelier), e voyeurismo di massa (lo «spogliarello», la pornografia soft), tra high e low, che rigenera l’iconografia fascista nel segno di una radicale estetizzazione della politica e della sessualità.
Le azioni di Mauri a tema storico – di cui Valérie Da Costa ricostruisce con grande attenzione nel suo studio genesi, struttura, varianti – rimangono tuttavia oggetti scomodi, enigmatici. Mi appaiono sempre più come scene fantasmatiche, cerimoniali di espiazione in cui si manifesta una essenziale, sadomasochistica ambivalenza tra attrazione e repulsione, tra dolore e piacere, tra godimento e distacco: Male e bellezza, si intitolava non a caso una mostra di Mauri del 1997. Una ambivalenza, questa, ereditata direttamente da Alberto Burri, altro artista per il quale la materia violenta della Storia diventa al tempo stesso materiale da tormentare e riparare, da lacerare, piagare, bruciare e ripresentare come oggetto di cura, di risarcimento, di ricucitura, carnale quanto metaforica.
Per rispondere alla domanda iniziale: sì, per Mauri il totalitarismo può tornare come finzione, in un senso affine alla tradizione gesuitica degli esercizi spirituali e al loro metodo di evocazione del male attraverso originali forme di immedesimazione teatralizzata. Il totalitarismo non è infatti solo una memoria definita da indiscutibili coordinate storiche: è un agente che contribuisce segretamente a dar forma alla contemporaneità, e che può da questa essere ulteriormente illuminato. In altre parole, è partendo dalla finta sicurezza della società di massa che è possibile rileggere il potere infiltrante dell’ideologia fascista, la sua capacità di mobilitare un’energia che non si è esaurita con la fine degli esperimenti politici cui essa ha dato vita, ma che è sempre latente, sempre tragicamente disponibile.