«Ci stiamo scontrando con una nuova corrente del fascismo», dice al manifesto il ministro degli Esteri venezuelano, Elias Jaua. A quasi due mesi dalle proteste violente che, nel suo paese, hanno provocato 41 morti e oltre 650 feriti, Jaua è venuto a Roma per assistere alla canonizzazione dei due papi in Vaticano, e per incontrare il Direttore generale della Fao, José Graziano da Silva. La tappa conclusiva di un viaggio presso diversi organismi internazionali fra i quali l’Unesco.

Che cosa intende per nuovo fascismo? L’opposizione vi accusa di essere una dittatura che reprime pacifici studenti.

Abbiamo deciso di effettuare questa campagna internazionale proprio per fare chiarezza: per spiegare e denunciare presso gli organismi multilaterali del sistema delle Nazioni unite e altre istituzioni con che cosa ci stiamo scontrando, quale pericolo ha dovuto affrontare la società venezuelana durante i 15 anni di governo socialista: una corrente fascista che, dal colpo di stato del 2002 a oggi ostenta le stesse facce, gli stessi interessi e le stesse pratiche. Non ha proposte, ma un unico intento: far cadere il governo con mezzi violenti scavalcando la volontà popolare ribadita nel corso di 18 elezioni. Una posizione con un elevato livello di xenofobia nei confronti di altri nostri fratelli caraibici, soprattutto verso i medici cubani. Un’ondata di intolleranza verso settori sociali specifici del popolo venezuelano, come si vede dagli obiettivi presi di mira sia nel corso delle violenze post-elettorali seguite alle presidenziali del 14 aprile 2013, sia durante le proteste di questi mesi: strutture pubbliche, scuole, centri medici e centri educativi, asili nido con i bambini dentro.

Perché vi siete rivolti all’Unesco?

Siamo stati all’Unesco insieme a studenti dei settori popolari aggrediti da gruppi armati di opposizione che vogliono spingere il popolo a una guerracivile. L’Unesco ci ha riconosciuto come paese libero dall’analfabetismo, quinto per matricole universitarie al mondo e secondo in America latina, ci ha premiato per aver favorito l’accesso alla tecnologia mediante la distribuzione gratuita di computer portatili ad alunni e studenti, ha riconosciuto in due occasioni manifestazioni della nostra cultura, come patrimonio dell’umanità. Abbiamo denunciato le azioni violente di sindaci e di governatori di opposizione, che avrebbero dovuto garantire il rispetto dei diritti umani e invece hanno promosso e istigato alla loro violazione: bruciando università e centri educativi hanno negato il diritto all’istruzione, attaccando le sedi della televisione pubblica e dei media comunitari hanno violato il diritto alla comunicazione libera e plurale. E per questo lo stato ha dovuto applicare la legge e sanzionarli, anche con il carcere.

La Fao ha intitolato un programma di lotta alla fame allo scomparso presidente Hugo Chavez. Ma per la destra il socialismo bolivariano è un modello perdente, che provoca penuria alimentare e inflazione. E resta comunque da sradicare un 7% circa di povertà estrema. Cosa avete chiesto a Graziano da Silva?

L’anno passato, la Fao ha premiato il Venezuela per aver sconfitto la fame in poco tempo, per aver abbassato la soglia di povertà estrema dal 26% in cui si trovava nel ’98, a meno del 7%. Una fascia che è comunque tutelata da coperture sociali estese, a partire dal sistema delle Case di alimentazione che forniscono cibo gratuito. Nel Programma del Plan della Patria, avviato da Chavez, assunto dal presidente Nicolas Maduro e ratificato dal parlamento per volontà del popolo, c’è il fermo proposito di sradicare la povertà estrema in sei anni. Compito dell’offensiva che stiamo portando avanti è anche quello di trovare risorse necessarie, nella diversificazione dell’economia, per rompere questo zoccolo duro di povertà estrema. Alla Fao abbiamo denunciato la violazione del diritto umano all’alimentazione da parte dell’opposizione che ha distrutto tonnellate di alimenti destinati ai settori popolari e danneggiato le reti di distribuzione alimentare.

Il presidente di Fedecamaras si è dichiarato molto soddisfatto dei colloqui di pace. Vuol dire che avete rivisto i programmi a favore della Confindustria?

La direzione politica della rivoluzione non si negozia senza mandato del popolo. Questo abbiamo detto all’opposizione. Il modello socialista non è negoziabile: permette l’esistenza del settore privato, sia a livello nazionale che internazionale, ma subordinato agli interessi popolari. Chiunque voglia investire in Venezuela deve rispettare i diritti dei lavoratori e il processo politico che il popolo si è dato, i diritti sociali che ha costruito durante la rivoluzione. Le multinazionali che investono nel settore petrolifero lo hanno accettato.

Le relazioni privilegiate con Cina e Russia, mirano ad archiviare i rapporti commerciali con gli Stati uniti?

Il nostro programma strategico è basato sulla visione di un nuovo mondo multipolare, non su una polarizzazione basata su un qualche paese-guida. Favoriamo la costruzione di diversi poli di sviluppo economico, sociale, politico, uno dei quali vorremmo fosse costituito dall’America latina. Contiamo di vendere un milione di barili di petrolio alla Cina, ma anche all’India, ai Brics e naturalmente ai nostri fratelli caraibici in base a scambi solidali che, se venissero meno, porterebbero alla destabilizzazione del continente: di questo dovrebbe tener conto la destra e chi la sostiene. Vogliamo anche continuare a vendere il petrolio agli Usa. Magari impiegassero la loro potenza per favorire il benessere dei popoli e non per le guerre. Continueremo anche ad aiutare i poveri del Bronx attraverso le nostre raffinerie locali, fornendo loro carburante gratuito per l’inverno. Lavoriamo per un nuovo equilibrio in cui i popoli – e gli stati, di cui rispettiamo le differenze -, possano complementarsi: ma senza ingerenze e manovre destabilizzanti. Gli organismi delle nazioni sudamericane hanno dimostrato di avere un ruolo fondamentale nella risoluzione dei conflitti. Anche ora in Venezuela. Queste difficoltà possono forse rallentare i nostri progetti, ma non fermeranno l’avanzata di un’alternativa al capitalismo in tutto il continente.