Nel 1935, durante una delle sue conferenze, André Breton dichiara necessario che l’«autentico oggetto surrealista» abbia, come suggerito da Man Ray, «una sorta di segno o di sigillo». Durante gli anni trascorsi dalla presentazione del suo primo Manifesto (1924) sono troppe le «speculazioni» tollerate e le mistificazioni subite, ma soprattutto sbagliato l’«idealismo» di chi aveva dimenticato che si raggiunge «la precisione delle forme definite di un oggetto veramente visibile, nella misura in cui questo agisce direttamente sul mondo materiale». D’altronde i surrealisti non si sono autoproclamati nel 1925 «specialisti della Rivolta»?
Quando, in una sala affollata di Praga, il padre del Surrealismo espone la «Situazione Surrealista dell’Oggetto» Meret Oppenheim (Berlino, 1913 – Basilea, 1985) è già dal 1931 nella cerchia del movimento e con l’ objet surréaliste, nelle sue implicazioni simboliche e oniriche, ha dimostrato – femme-enfant – di avere molta familiarità, come bene spiega la mostra a lei dedicata al MASI, Museo d’Arte della Svizzera Italiana di Lugano (fino al 28 maggio), a cura di Guido Comis con la collaborazione di Maria Giuseppina Di Monte.
Spirituale, materiale
Con la sua tazza e posata impellicciate con pelle di gazzella – Le déjeuner en fourrure (1936) – Meret ha dimostrato, infatti, di avere afferrato con abilità i meccanismi di un procedimento che, come Breton aveva teorizzato, doveva mettere l’oggetto dell’arte «fra il ragionevole e il razionale» affinché «qualcosa di spirituale potesse sembrare materiale». Nello stesso anno della creazione di Colazione in pelliccia, definita «icona della modernità» da Werner Hofmann, un’altra opera, dal titolo Ma gouvernante, conferma le strategie surrealiste dell’artista. L’oggetto si compone di un paio di scarpe décolleté bianche, legate e poggiate su un vassoio ovale con inseriti nei tacchi, rivolti in alto, le crestine di decoro degli arrosti. Purtroppo, anche se quest’opera manca in mostra, come spiega con perizia Daniel Spanke in catalogo (Skira) dopo questi exploit l’attenzione riservata alla Oppenheim è stata di «assecondare il cliché sessista della giovane e bella musa di artista alla quale per una volta è riuscito qualcosa di eccezionale».
A originare un simile giudizio contribuì in parte lei stessa. «Detesto le etichette – dichiarò nel 1984 in un’intervista – soprattutto resisto alla qualifica di surrealista, perché dalla seconda guerra mondiale questo termine ha cambiato significato». Non aveva poi tutti i torti a prenderne le distanze. In soli quindici anni gli avvenimenti politici accaduti in Europa producono profonde divisioni e molte ambiguità: si pensi a Dalì. D’altronde l’irrisolta e principale ambivalenza del Surrealismo, quella di «distruggere creando», non era già stata bene evidenziata da Sartre? In merito, invece, al «cambiamento di significato» occorre dire che i temi e i valori propri di Breton come dei suoi amici, letterati e artisti, hanno avuto solo la sfortuna di essere presto sopravanzati da una realtà ben più cinica e spietata del loro humor e del loro cadavre exquis.
Lo spettatore verde
Tuttavia, ancora negli anni trenta, gli oggetti dell’arte surrealista danno prova di chi è ancora bene intenzionato a scardinare il mondo, rifiutarlo e distruggerlo. A Parigi, dove si trasferisce da Basilea, Meret non spreca il suo tempo a guardare gli altri che pure la influenzano e ispirano: in primis Giacometti, al quale rimandano alcune sue piccole sculture (Venere preistorica; Lo spettatore verde, 1933) e poi Hans Arp. Nel 1934, disinibita e indifferente, posa nuda per Man Ray nello studio di Louis Marcoussis, da sola e insieme all’artista cubista camuffato con una barba finta. Le fotografie, pubblicate sulla rivista «Minotaure» con il titolo di Érotique voilée, contribuiscono anch’esse a disegnare l’ideal-tipo surrealista. Declamerà entusiasta Breton: «la bellezza convulsa sarà erotico-velata, esplosivo-fissa, magico-circostanziale o non sarà». Di là da ogni smascheramento del desiderio sessuale o riferimento simbolico, gli oggetti della giovane Oppenheim si collocano al culmine di un percorso che, come si sa, ha origine nei ready-made di Duchamp, e dove torna utile ogni genere di manufatto per comporre straordinarie Wunderkammer: sculture tribali, modelli matematici, prodotti industriali, arnesi o pezzi raccolti ai mercatini delle pulci, eccetera…
Gli objets trouvés dei due artisti, sempre esposti vicini dalla loro prima apparizione nel 1936 alla Galerie Charles Ratton (Parigi) fino all’ultima di tre anni fa al Centre Pompidou (Le Surréalisme et l’objet, a cura di Didier Ottinger), rappresentano la quintessenza della poetica surrealista, nonostante Meret abbia voluto di continuo minimizzare il suo contributo. Heike Eipeldauer illustra nel suo saggio come dalla creazione della Tazza di pelliccia ha inizio tra Meret e Duchamp un «dialogo artistico» durevole nel tempo anche se a distanza. Li accomuna l’«ironico distacco» che entrambi mostrano nei confronti delle loro creazioni, concepite come merce-feticcio, mai premeditate, nate in modo arbitrario perché dettate dall’inconscio. Nonostante, però, queste intransigenti disposizioni che disconoscono sia l’opera sia il gesto artistico, i multipli dei ready-made duchampiani, come le riproduzioni di Meret Oppenheim negli anni sessanta e settanta – ad esempio la stampa offset della fotografia di Man Ray della tazza impellicciata (Ricordo di «Colazione in pelliccia») – saranno sul mercato per soddisfare le richieste di musei e collezionisti. Il rigetto della monetizzazione dell’opera d’arte si rivela così un inganno e la carica utopica che sottendeva ogni loro gesto un fallimento. Con Franco Fortini, si deve convenire che «come accadde già ai romantici, l’indissolubilità con la cultura e il potere che si pretende combattere» segna il limite della loro azione, soprattutto decenni dopo la loro apparizione sulla scena dell’arte e della politica.
Il mondo dopo la guerra è profondamente cambiato con la dissoluzione in Europa di ogni ipotesi rivoluzionaria. In una mostra che si prefigge di meglio definire l’universo artistico e intellettuale di Meret in relazione (visiva) con un buon numero di artisti più grandi per età e più affermati di lei, il suo rapporto con il surrealismo rappresenta il nodo centrale. Risulta, infatti, più compiuto e risolto rispetto ad altre sue ricerche (Gente per strada; Gente che passeggia dietro una staccionata, 1933), che guardano a Picabia o Ernst e che negli anni trenta corrono parallele tra anatemi nichilisti e sfacciate provocazioni.
Tra crisi economiche, familiari (il padre dovrà abbandonare la Germania perché ebreo e rifugiarsi a Basilea) e depressive, Meret prosegue la sua attività artistica, e prima dello scoppio della guerra, a Parigi, per la galleria di Leo Castelli-René Drouin crea il famoso Tavolo con le zampe di uccello (1939). Dopo la guerra sposa il commerciante Wolfang La Roche e si stabilisce a Berna da dove continua le sue ricerche. «Anche qui nel mio studio di Berna – scrive in un appunto – si fanno cose interessanti»: ancora, però, nel segno del surrealismo (Scarpe in pelli, 1956; Fine e scompiglio, 1971) e sempre in contatto con il suo circolo. Breton gli chiede di replicare a Parigi il suo Banchetto di Primavera (Berna, 1959) – un festino sul corpo di una donna nuda – per l’«Exposition inteRnatiOnale du Surrealisme» (EROS), mentre con Duchamp prosegue il suo scambio artistico mai interrotto.
La statuetta di pane
Nel 1966 Buon appetito, Marcel (La regina bianca) – una vagina dentata a forma di statuetta di pane posata apparecchiata su una scacchiera – è l’ironico e simbolico ultimo omaggio al suo amico-maestro. Due anni prima aveva consegnato al radiologo la sua immagine di profilo in quella «raffigurazione postuma» che è Radiografia del cranio di M.O.: ancora una sorprendente prova di come l’arte di Meret Oppenheim ha saputo «moltiplicare le vie di penetrazione negli strati più profondi del mentale», come richiedeva Breton nel suo Manifesto, per «farsi veggente» con libertà e amore