Nel teatrino della quotidianità il ritmo del tempo è scandito dalle stagioni. La primavera è nei ciliegi in fiore, l’estate negli iris, l’autunno negli aceri, l’inverno nella neve. Così lo racconta Adolfo Farsari (1841-’98) nelle sue immagini fotografiche, siano vedute panoramiche o fotografie di genere realizzate in studio a Yokohama.
Il vicentino con passaporto statunitense era arrivato in Giappone nel 1876 e lì aveva intrapreso (da autodidatta) la professione di fotografo. Nel 1885, insieme al socio Kozaburo Tamamura, acquistò dal barone Raimund von Stillfried lo studio al 17 di Kyoryuchi con l’archivio della Japan Photographic Association (prodotto nei dieci anni di attività dalla società Stillfried & Andersen), in cui erano confluite anche le lastre di Felice Beato, primo tra i fotografi occidentali ad aprire, all’inizio degli anni sessanta dell’Ottocento, l’atelier dove vendeva le sue immagini pittoresche del Sol Levante. L’anno seguente, però, un incendio mandò in fumo l’intero studio con i negativi, e Farsari partì per cinque mesi per realizzare nuove fotografie in diverse località del paese. Sarà anche per via della coloritura a mano che infonde vitalità alle stampe all’albumina, ma l’evocazione di un mondo lontano – dichiaratamente esotico – di queste immagini si traduce in una visione reale quanto immaginifica.
Bisogna rappresentarsi la curiosità verso il Giappone nella seconda metà del XIX secolo, quando lo shogunato Tokugawa apriva agli occidentali confini rimasti sbarrati per secoli, in particolare nel 1854 e con il Trattato di Amicizia e Commercio del 1858. All’inizio si trattava solo di scambi diplomatici e commerciali, poi dalle navi cominciarono a sbarcare i viaggiatori, solleciti nel riportare a casa un souvenir de voyage che suscitasse la stessa meraviglia che avevano provato guardando la pagoda del tempio Shitenno-ji a Osaka, il Grande Buddha di Kamakura, il profilo del monte Fuji, le antiche terme di Ikaho declamate anche nel Man’yoshu, le architetture del quartiere delle geishe a Kyoto, il panorama fluviale di Shionada-shuku (l’attuale città di Saku) lungo l’antica via Nakasendo che collegava Edo (Tokyo) con Kyoto o le coltivazioni di riso, le pergole di glicine e i ponticelli sospesi sulle acque increspate.
Come non trovare proprio nella fotografia, che in Giappone ai suoi inizi è in stretta relazione iconografica, estetica e compositiva con la produzione xilografica dell’ukiyo-e, la perfetta sintesi tra immediatezza dello sguardo e memoria? È presto spiegato il grande successo delle Yokohama shashin, le fotografie colorate a mano che, insieme alle vedute, producono suggestive messinscena dedicate alle tradizioni culturali e folkloriche a uso e consumo di un’industria turistica ante litteram.
Dall’album Viste e Costumi del Giappone proviene parte delle sessantaquattro immagini della mostra Adolfo Farsari Il fotografo italiano che ha ritratto il Giappone di fine ’800 (a cura di Osano Shigetoshi), realizzata in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Tokyo e allestita nello spazio espositivo dell’Istituto Giapponese di Cultura a Roma fino all’8 gennaio. Al di là della messa in posa, è possibile intercettare una certa autenticità dei soggetti anche attraverso la finzione: Fratelli, Sorelle, Due monaci buddhisti, Risciò, A letto, Cena… In Tatuaggio, poi, il vero soggetto non è il ritratto maschile in sé ma l’irezumi. Di questo tatuaggio giapponese che si espande su tutte le spalle dell’uomo, a essere rilevante non è tanto la valenza di status symbol o magari apotropaica, quanto piuttosto la sua qualità estetica di arte decorativa. Per via della modernizzazione del Giappone, nel 1872 l’arte del tatuaggio venne messa al bando perché considerata in un certo senso primitiva, ma continuò a riscuotere grande interesse presso gli stranieri.
Ad aprire il percorso espositivo è una foto moderna che inquadra la copertina laccata con intarsi di madreperla e pittura maki-e dell’album che Farsari aveva inviato alla sua famiglia, dopo vent’anni di silenzio, usando per il titolo i caratteri dorati: Viste e Costumi del Giappone/ manda alla sua famiglia/ l’autore. Le fotografie originali del carnet sono conservate presso la Pinacoteca Civica di Palazzo Chiericati di Vicenza a cui fu destinato per lascito da Emma Garbinati Farsari, sorella del fotografo. Immagini analoghe sono presenti anche nell’album Views & Costume of Japan, A. Farsari & Co., Yokohama, dell’Archivio di Yokohama (Yokohama Archives of History) e in quello della scatola rivestita di stoffa appartenuta a Kiku (Rosina), la figlia che Adolfo Farsari aveva avuto da una donna giapponese (è con lui, bambina, nella foto scattata a bordo della nave Congo nel 1890 sulla via del ritorno in Italia), che studiò e poi prese i voti all’Istituto Farina di Vicenza, oggi Istituto delle Suore Maestre di Santa Dorotea. Dall’archivio di questo istituto proviene un altro nucleo di fotografie, insieme a quelle della Biblioteca Civica Bertoliana di Vicenza.
Le vicende biografiche di Farsari, incluso il periodo a stelle e strisce che lo vide combattere con i nordisti nella Guerra di Secessione Americana, sono interessanti quasi quanto la sua opera. Le ricerche del curatore Shigetoshi, professore emerito dell’Università di Tokyo, si sono avvalse innanzitutto della tesi di laurea sull’epistolario inedito del fotografo-viaggiatore di Elena Dal Pra, la cui nonna paterna ereditò la casa di Emma Farsari in cui furono rinvenute quelle lettere, e dalla monografia di Lia Beretta Adolfo Farsari: an Italian photographer in Meiji Japan (1996).
Così, è stato possibile ridefinire il profilo biografico di Farsari. A cominciare dalla professionalità, riconosciuta già dai contemporanei: era abile nel realizzare istantanee in notturna con luce al magnesio (lo riporta il The Japan Weekly Mail del luglio 1888). Quanto all’annotazione «le fotografie di Farsari passano pelle migliori giacché le sue foto dipinte non perdono il colore come le altre col tempo, ma sono molto care», è riportata il 15 giugno 1889 nel diario del conte Alessandro Zileri, tra i blasonati viaggiatori al seguito di Enrico di Borbone, principe di Parma e conte di Bardi, che si fece ritrarre nello studio di Yokohama in abiti giapponesi. Adolfo Farsari, in fondo, fu un «vero uomo», almeno secondo il pensiero taoista che considera tale «colui che ha fatto di se stesso un maestro nell’arte del vivere».