Butterflies in Berlin: farfalle viola berlinesi, filigrana impalpabile e coloratissima di anime e storie LGBT cancellate dal nazismo hanno invaso pacificamente il cielo del Florence Queer Festival, conclusosi nei giorni scorsi – XVII edizione – con la guida storica di Bruno Casini e Roberta Vannucci.
Un cielo che ha visto accendersi il bagliore dissacrante di Wild nights with Emily di Madeleine Olnek (miglior film), con una Dickinson riconosciuta e liberata nella sua interezza soggettiva e poetica di donna che ama e dedica a una donna, oltre tutte le cancellature e le mistificazioni; quelle che il Lesbian Herstory Archive di New York (nel documentario The Archivettes di Megan Rossman), continua a preservare ad includendum, perché la salvaguardia della memoria non conosce steccati.
O ancora quello di The garden left behind di Flavio Alves, che abbraccia in modo emotivamente maturo e rinfrancante il domino di fattori familiari e sociali, la violenza che incombe su chi ha un vissuto LGBTQI+, su chi aspetta di fare la transizione come la protagonista e sulla sua dolcissima “abuela” (nonna), tra immigrazione e marginalità che si sommano.
A seguire il colloquio con Monica Manganelli, autrice regista e disegnatrice del corto d’animazione Butterflies in Berlin, un’Anima divisa in due, applauso lunghissimo in sala e in giro per il mondo. Dal tracciato reale della prima transessuale operata e sopravvissuta, dalla figura dell’”Einstein del sesso”, il medico Magnus Hirschfeld cui si deve la parola “transessualità”, a quello che accadde a 10mila omosessuali deportati dai nazisti. Coltissima e sensibile partitura visivo-musicale che scava nel buio rimosso dell’Omocausto e del paragrafo 175, atrocemente sopravvissuto nel codice penale tedesco fino al 1994.

Cosa ti ha spinto verso questa materia così negata e incandescente?
Desideravo trattare la diversità, cosa significhi nella società e in rapporto con la Storia. In più mi ha sempre affascinato il periodo berlinese anni ’30. Così, facendo ricerche, ho scoperto Magnus Hirschfeld, fondatore nel 1919 dell’Istituto di Scienze Sessuali, il primo al mondo. Mi è sembrato qualcosa di rivoluzionario. Lo sarebbe anche oggi. Era un medico ebreo che voleva appassionatamente dedicarsi agli altri e studiare le innumerevoli varietà di orientamento sessuale. L’ispirazione a creare l’istituto emerse in lui dopo aver ricevuto una lettera di una persona che poi si impiccò perché non riusciva a esprimere la propria identità di genere. Hirschfeld fu paladino della lotta gay e contro il paragrafo 175 sull’eliminazione degli omosessuali.

E come ti sei imbattuta nella storia dell’uomo che diventò ‘Alexandra’?
Studiando quel che è rimasto dell’archivio del dottore dopo l’incendio del 6 maggio del ’33, ho trovato la storia di Rudolf Richter che poi divenne Dora, la prima trans della Storia. Ovviamente a quell’epoca l’inclusione dopo l’operazione era qualcosa di molto complesso (lo è anche oggi…), così lui la accolse all’interno dell’istituto come aiuto. Il resto, compresa la deportazione, lo abbiamo immaginato, perché dopo l’assalto del ‘33 non sappiamo che fine abbiano fatto coloro che transitavano nell’istituto. Nello stesso periodo lì c’era anche Lili Elbe (famosa artista danese narrata nel film The danish girl, ndr), che non è sopravvissuta. Ho voluto raccontare la storia della protagonista attraverso la sua metamorfosi personale e per questo ho diviso il film in 4 capitoli, tanti quante le fasi di quella della farfalla. Il personaggio di Alexandra fa così da perno a tutti gli altri reali che narro: Hirschfeld appunto, Frank Foley (agente dell’intelligence britannica che salvò 10mila ebrei tedeschi, ndr), e il cosiddetto affare dell’ospedale ebraico di Iranische Strasse, che collaborava con la Gestapo, una storia ora riemersa grazie al “Sunday Times”.

Il film ha una storia lineare e uno stile ricercatissimo.
C’è stata una indagine iconografica lunghissima. Venendo dalla scenografia nella lirica, concepisco il racconto visivo non come qualcosa di accessorio, ma come parte della narrazione. Cruciale è stato il lavoro sulle cartoline, le fotografie e le riviste dell’epoca. In rete, attraverso amatori, ho trovato affiche e poster della repubblica di Weimar. All’inizio utilizzo colori molto saturi che, con l’ascesa al potere di Hitler tendono a desaturarsi, a virare verso i grigi, il rosso il bianco il nero. Ogni frame è percepito come un quadro e molte sono le citazioni. Al momento dell’Olocausto: l’inferno dei dannati di Gustavo Doré, solo con le figure col triangolo rosa. Ma anche elementi scenografici di Salon Kitty di Tinto Brass, Ken Russell, i pittori Otto Dix e Georges Grosz o Max Beckmann per il nazista come uomo uccello, o ancora – al momento della transizione del corpo – Sasha Schneider, artista austriaco tedesco fuggito in Italia a causa del paragrafo 175.

A proposito della simbologia?
Cercavo il titolo, che è fondamentale per me, come nell’opera lirica la sinfonia è il preludio di tutta la storia. Così gli opening title sono simbolici e anticipano tutto quello che vedremo dopo: la svastica, il campo di concentramento, i dannati che vanno verso la linea dell’orizzonte, il corpo dell’uomo diviso in due. Quella della farfalla mi sembrava la metafora perfetta. Per me l’ultima fase della metamorfosi nell’essere umano va al di là della trasformazione fisica di genere. Si muta in farfalla quando diviene consapevole di se stesso, quando dopo aver affrontato il dolore della persecuzione nazista, inizia a darsi da fare per salvare gli altri. Quindi è qualcosa che riguarda l’anima oltre che la dimensione di genere. L’ultima frase che Alexandra scrive sul diario (che ho immaginato pensando a quelli raccolti dal Washington Museum), è “la morte è solo una porta”.

I volti dei personaggi non sono provocatori come talvolta nel cinema queer, ma delicati.
È uno sguardo che mi appartiene. Volevo andare oltre lo stereotipo. Al tempo stesso desideravo che tutti potessero identificarsi. Abbatti le barriere della discriminazione di qualsiasi tipo siano.

A proposito del paragrafo 175 e della sua abolizione solo dopo la riunificazione tedesca. Che tipo di risposte hai incontrato rispetto al progetto e alla trattazione dell’Omocausto?
Come raccontavo nell’incontro coi ragazzi, all’inizio ho avuto momenti di sconforto perché quando ho contattato alcune istituzioni austriache ed altre americane che si occupavano di Olocausto non riconoscevano quelle omosessuali come vittime, se non di serie B. In Germania le reazioni sono state contrastanti, da un lato per primi ci hanno supportato con i fondi ministeriali. Presso il Memoriale di Berlino ne è stato creato uno per le vittime dell’Omocausto. E ho letto che la giornata della Memoria del 2020 vedrà il riconoscimento ufficiale da parte del parlamento di queste vittime. Ci ha chiamato l’università delle Arti di Berlino, che è la più importante della Germania e farà un incontro con il Ministero delle Politiche contro l’Antisemitismo. Però non tantissimi festival tedeschi ci hanno voluti.