Marie Losier, una delle autrici più innovative e interessanti del cinema documentario contemporaneo, che ha appena finito di montare un nuovo film sul musicista tedesco Felix Kubin, è l’ospite della sezione Presenze della nona edizione del Sicilia Queer filmfest, che si svolgerà a Palermo dal 30 maggio al 5 giugno.

Qualche anno fa Nicole Brenez ti presentava come «uno dei bambini scappati dalla scena delle piume in Zero in condotta» di Jean Vigo. Come sei arrivata al cinema? Vieni da studi letterari, sei francese ma il tuo è un cinema totalmente americano.

Il cinema è sempre stato la mia ossessione: i miei genitori avevano un cineclub nel paesino in cui sono cresciuta. Vengo da una famiglia di immigrati russi, mio padre è algerino; quando mia madre è tornata in Russia ho vissuto con mia zia a Parigi. Studiavo letteratura americana, saltavo molte lezioni e lei mi dava il permesso di andare alla Cinémathèque per assistere alle magnifiche lezioni di Jean Douchet. Ho ottenuto una borsa per fare uno scambio negli USA, non ho mai più scritto la mia tesi di dottorato in letteratura americana e mi sono iscritta all’Istituto di Belle Arti dell’Hunter College. Per ventitré anni sono rimasta a New York: ero sola, non conoscevo nessuno e a poco a poco ho trovato un gruppo di amici che mi ha formata, prima al cineclub Ocularis dove ho imparato a programmare film sperimentali, e poi all’Anthology Film Archives, dove ho conosciuto il cinema di Jonas Mekas e il teatro di Richard Foreman, che è stato importantissimo. Nello stesso periodo ho conosciuto Mike Kuchar che mi ha insegnato a usare la Bolex, la 16mm che ancora oggi uso quotidianamente. Il mio primo film, Bird, Bath and Beyond (2003), l’ho fatto con Mike, poi ho conosciuto suo fratello, George Kuchar, con il quale ho fatto il secondo film, Electrocute Your Stars! (2004): è così che è cominciato tutto.

Invitarti a Palermo per noi significa anche rendere omaggio, attraverso di te, al mondo che un cineasta come Jonas Mekas (scomparso alla fine di gennaio) ha rappresentato. Qual è stata per te l’importanza di questo cineasta e del mondo che gravitava intorno a lui?

È stato determinante, anche perché ho scoperto dei film che non avrei mai potuto vedere altrove. All’Anthology Film Archives ho conosciuto tutti i personaggi dei miei film e tutti i miei amici, e a distanza di ventotto anni continuo ad andarci. È un posto così vivo, un insieme di persone di ogni età e di ogni ambiente con una voglia matta di cinema, musica, pittura, poesia e una voglia di vivere che mi ha travolta velocissimamente. È diventata un po’ come casa mia.

Sono cresciuta con i classici americani, i western, i musical, i film di Lubitsch, di Mankiewicz. Conoscevo molto bene anche il cinema muto, che ha avuto una grandissima influenza sulla mia vita, e con i classici del cinema francese: Franju, Godard, Rozier. A New York ho scoperto giovani che facevano film, mentre i più classici li vedevo all’Anthology. Quando ho lavorato nel teatro di Richard Foreman ho scoperto anche il mondo della sperimentazione: Foreman era molto vicino a Mekas, avevano condiviso il loft in cui si trovavano i primi Anthology Film Archives. I due ambienti erano molto vicini e per mezzo del teatro ho scoperto anche il cinema underground. Ma il primo cinema che ho scoperto è stato quello dei fratelli Kuchar.

George Kuchar faceva parte di un ambiente che comprendeva tutto il cinema underground della scena newyorkese, da Andy Warhol a Kenneth Anger, da Stan Brakhage a Jonas Mekas, a Jack Smith ecc. Mike Kuchar disegnava fumetti soprattutto per riviste e pubblicazioni omoerotiche degli anni ’80.

Mike si guadagnava da vivere con i disegni, anche George lo faceva prima di diventare docente all’Art Institute di San Francisco. Erano stati a scuola con Crumb, il fumettista, e quando ho conosciuto Mike faceva il proiezionista al Millennium Workshop che era legato a Ken Jacobs, un cinemino vicino all’Anthology Film Archives. Ho scoperto il cinema underground soprattutto lavorando con Mike e George: erano autodidatti come me. Erano come dei momenti performativi, di celebrazione della vita, si faceva tutto in un giorno: trucco, scenografia ecc. Giravamo con tanta gioia, tanta semplicità, soprattutto in esterni, perché non avevamo le risorse economiche per girare in studio; nelle strade, sui tetti, insomma, nel modo in cui la città poteva accoglierci.

Il tuo desiderio di cinema nasce dal desiderio di riprendere queste persone?

Proprio così. Mio padre ha fatto film educativi per tutta la vita, è stato regista per il Ministero della pubblica istruzione. Io sognavo di fare cinema fin da quando ero piccolissima, ma siccome non siamo mai stati molto vicini non ho mai osato. Il cinema sperimentale me lo ha permesso perché erano tutti artisti autodidatti provenienti dal mondo della pittura, della letteratura, della musica, e in un batter d’occhio si potevano fare dei film. Ero legatissima alla pellicola, perché ci sono cresciuta, e in un certo senso è come un’estensione della pittura. C’è qualcosa di magico nel fatto di filmare in pellicola e di lavorare a parte all’invenzione del suono non sincronizzato. E poi c’è anche un lavoro fisico quando si filma, e un aspetto magico alla Méliès perché il risultato delle riprese si vede solo in un secondo momento. Il montaggio tattile, oltretutto, che all’inizio facevo a mano, il gesto di tagliare la pellicola… Quell’ambiente mi ha permesso di fare film senza pensarci, con grande passione.

Come hai lavorato per questi film? Sembra che si parta sempre da una registrazione audio e che successivamente ci sia una messa in scena, un vero e proprio gioco con i tuoi attori.

Quando ho incontrato George e Mike abbiamo passato molto tempo a registrare storie e poi a cominciare a immaginare il mondo visivo verso il quale volevo dirigermi. Creavamo dei tableaux vivants con fondali scenografici molto semplici sui quali in seguito facevo delle sovrimpressioni nella cinepresa. Il montaggio sonoro permetteva poi in un certo senso di illustrare o presentare il mondo immaginario: era sempre uno spazio ludico. Il montaggio del suono oggi è per me come il cucito: per The Ballad of Genesis and Lady Jaye (2011) ci sono voluti sette anni di registrazioni, un lavoro da pazzi per fare una sorta di collage, di ricreazione di una storia attraverso tantissime registrazioni.

Anche il tuo ultimo film Cassandro the exotico! (2018) è un collage continuo: ci sono registrazioni in presa diretta, chiamate su Skype, molti piani sonori si mescolano nei film. Il 16mm è molto importante per te, ma non disdegni altri mezzi più contemporanei.

No, perché non uso il 16mm per oppormi al digitale: è bello mischiare i media e sono certa che un giorno farò un film in digitale, anche se sempre a modo mio (magari con dei filtri per trasformare un po’ l’immagine). Ancora non riesco a concepire di guardare in tempo reale quel che sto riprendendo. Ho bisogno di non conoscere il risultato, e girare in pellicola è prezioso perché si evita di girare per ore e ore, c’è una grandissima precisione quando filmo. Allo stesso tempo amo mischiare Digital Video, Skype, video, 16mm… tutto questo lavoro di materia che continua nel suono, nel collage, e che permette di costruire un racconto, spesso con dei personaggi abbastanza “collagizzati” o addirittura spezzati: anche i loro corpi sono fisicamente assemblati attraverso la materia stessa del film.

Il fatto che gli stessi corpi dei protagonisti siano delle costruzioni, dei collage, è molto evidente nei due lungometraggi. Nel passaggio al lungometraggio hai l’impressione di allontanarti un po’ da quel che facevi in precedenza? Un sistema di distribuzione di film più classico cambia il tuo modo di lavorare?

The Ballad of Genesis and Lady Jaye l’ho fatto tutto da sola, nella mia stanza, senza sapere che sarebbe venuto fuori un lungometraggio. Sette anni di riprese a destra e a manca, l’aiuto degli amici, e nel frattempo un sacco di film brevi molto più spontanei fatti in una sola giornata. Cassandro finora è il primo e unico film prodotto: per la prima volta in vita mia ho lavorato con una montatrice [Aël Dallier Vega, n.d.r.] ed è stato stupendo perché ho avuto qualcuno con cui dialogare, quindi è stata davvero tutta un’altra cosa. Abbiamo avuto pochissimi soldi, è rimasto un film povero. Il vero inferno però è stata la distribuzione: non ci sono abituata, non è un mondo che mi interessa, anche se so che è importante per continuare a fare film come li faccio io, visto che continuo a lavorare a tempo pieno. Ad ogni modo è abbastanza straordinario che Cassandro sia uscito nelle sale. Che sia arrivato a Cannes, poi, è pazzesco: non ci credevamo, nemmeno Cassandro ci credeva. Ho l’impressione di essere stata circondata dalle persone giuste, che cercano di preservare il mio modo di essere e la maniera in cui giro i film.

Che legame c’è tra la figura di Cassandro, un lottatore di lucha libre, e le figure dei cortometraggi precedenti, principalmente artisti? Il tuo interesse per il wrestling non è una novità, perché avevi già girato Bim Bam Boom, Las Luchas Morenas! e possiamo dire che a modo suo Cassandro è un artista. Quello che ti attirava era la forma di pantomima rappresentata dal wrestling?

Esattamente. In realtà non è stato facile per me, e allo stesso tempo volevo vedere se riuscivo a filmare qualcuno che non fosse del mio ambiente, volevo provare a essere totalmente e disorientata e fuori contesto. È stata una vera e propria sfida, perché Cassandro è un artista ma non appartiene al mio mondo, non abbiamo lo stesso rapporto con la vita e soprattutto con il cinema. Quel che mi ha attratta è stata la sua sensibilità, la sua fragilità, e anche il legame con un mondo quasi circense, di fanfare felliniane, di corpo, di costume, di ballo, di pantomima, qualcosa che proveniva quasi dal muto. Senza questi aspetti mi sarei sentita un po’ persa.

Nei tuoi due lungometraggi c’è anche una dimensione nuova rispetto ai corti, cioè l’aspetto tragico. È intenzionale o semplicemente dovuto alle circostanze che ti limiti a registrare? Lady Jaye muore durante le riprese del film, mentre Cassandro ha dei gravi problemi di salute.

Non potevo prevedere quello che sarebbe successo con Lady Jaye, così come non potevo sapere che avrei condiviso quello che è successo e che succede con Cassandro, ma effettivamente c’è un tale senso di fragilità, un dolore, una lacerazione e una tristezza estreme, qualcosa di tragico che senza dubbio mi attrae profondamente e mi commuove. Penso che la dolcezza e la fragilità da un lato, e la forza vitale delle battaglie di libertà che ci sono in Genesis e in Cassandro dall’altro li rendano simili. Mettono veramente in pericolo la loro vita e arrivano sull’orlo del precipizio perché hanno il desiderio intenso di essere totalmente liberi rispetto ai loro corpi, ai loro desideri d’amore, ai loro desideri fisici, ai loro desideri di creazione, e questo mi attrae moltissimo.

Fra i tuoi riferimenti ci sono evidentemente il cinema muto, le avanguardie, il dadaismo. In un libro di Jean Epstein del 1921, Bonjour Cinéma, a un certo punto si trova questo brano: «Durante i film, il vecchio signore ripete alla moglie: Quanto è stupida questa storia, mia cara. Eh sì, signore, tutte le storie sono stupide sullo schermo. Credetemi, è quanto vi è di più sorprendente. Resta il sentimento. Ma i sentimenti non vi interessano più». Sembra invece che a Marie Losier i sentimenti interessino molto, che tu costruisca i tuoi ritratti proprio a partire dai sentimenti. È un modo diverso di affrontare il cinema documentario.

Adoro questa citazione, è stupenda! Ho spesso l’impressione di fare scene stupide e idiote, ma sono così tanto immersa nell’emozione e nel rapporto con l’altro che poi è questo che dà vita al film, e non un fattore intellettuale. Non incontro appositamente le persone per fare film su di loro; la conoscenza di nuovi amici e il tempo fanno sì che la cosa si trasformi in un film, non il contrario. Quindi non ci sono delle idee a priori di costruzione, di documentario; sono i sentimenti a trascinarmi.

Sono ancora molto amica di tutte queste persone che fanno parte della mia vita. Fare film per me è proprio come scrivere delle lettere d’amore. È il motore essenziale, premere la leva di scatto della cinepresa, avere voglia di mettere in scena significa innamorarsi della sensibilità di qualcuno. Non farei assolutamente gli stessi film se fossi fan di qualcuno di loro: non conoscevo la loro musica, il loro mondo o la loro arte quando li ho incontrati. La scoperta si fa man mano che si gira, che passano gli anni, ma significa semplicemente innamorarsi dell’amicizia, delle risa, della condivisione, dell’eccitazione di filmare insieme questi primi incontri.

Attraverso i tuoi cortometraggi ci si può fare un’idea della scena underground degli anni ’60, ’70 a New York. Poi ci sono i ritratti dei musicisti: Genesis P-Orridge, Peaches, April March, Alan Vega ecc. In alcuni film più recenti, come per esempio L’oiseau de la nuit (2015), compaiono altri gruppi composti da persone che hanno qualcosa in comune perché dialogano, sono amici o hanno qualcosa da condividere: penso a João Pedro Rodrigues, João Rui Guerra da Mata, Davide Oberto, Carlos Conceição, Ben Russell e altri. Nella tua ricerca, anche se forse per caso, c’è uno sguardo su mondi precisi: il mondo della scena underground, il mondo della scena musicale, ma anche uno sguardo sul mondo di un certo cinema contemporaneo.

Queste amicizie derivano ancora una volta da incontri, da un certo modo di vedere la vita e di accostarsi al cinema, un certo umorismo, una certa tenerezza, e penso che questo crei varie comunità, varie famiglie. Questa comunità è stata una novità per me: la famiglia di New York è molto salda e attraverso di essa ci sono stati incontri e contatti accomunati da uno stesso sguardo verso l’altro e verso il cinema.

Questa scena europea contribuisce a costruire una cosa che si sta ancora cercando di definire e che ha molto a che vedere con un cinema queer contemporaneo, che prova a innovare il linguaggio cinematografico (e i personaggi che si vedono di solito al cinema) a partire dal modo di raccontare le storie.

Penso sia questo l’elemento che mi unisce a quegli autori. C’è una maniera di trattare le storie, di inventare le trasformazioni dei personaggi, i costumi, i dialoghi, i modi diversi di amare, penso che ci sia veramente un universo nel quale mi ritrovo, dove c’è una libertà d’invenzione per cui tutto è permesso, tutto è autorizzato. Anche nell’ultimo film di João Pedro Rodrigues, O Ornitólogo, c’è questa mescolanza: il sogno, la finzione, i personaggi che attraversano dei rituali, le invenzioni dei costumi, e il fatto che sia creato con pochi mezzi fa sì che rimanga un leggero carattere camp che è stupendo. E questo mi fa fremere.

 

trascrizione di Emilien Gür, traduzione di Eugenio Bisanti