La sua confiture de ville (marmellata di città), composta da mele cotogne e more, ritrae con quel sapore di contrasti la poesia dei muri e degli angoli urbani. Il suo Mouvement de Libération des Bonzaïs ha «liberato» i piccoli alberi nella terra, senza più limitazioni né mani e forbici a costringere la loro forma. E quando nel 2000, per il passaggio di millennio, gli è stato chiesto di immaginare un’opera intorno all’Arco di Trionfo di Parigi, ha lanciato un sito, inconnu.net, per comporre, come una ragnatela avvolgente, l’Enciclopedia dell’ignoto. D’altronde, Fabrice Hyber (1961) è francese, «illuminista» per formazione scientifica (oltre che artistica), con una visione deleuziana della vita e della conoscenza che privilegia il concetto di rizoma.
Rizomatiche, percorsi di possibilità, reti senzienti sono anche le sue foreste, quelle che Hyber da anni si impegna a far ricrescere lì dove non c’erano più. «Ho diffuso più di trecentomila semi di alberi (compresi i noccioli) in un’area di circa cento ettari. Alberi ma anche arbusti da frutto. L’idea era quella di potersi nutrire del paesaggio. Il primo, e quello che posso considerare il ’detonatore’, è stato un sorbo. Ricordo che da bambino raccoglievo e mangiavo i frutti di questo albero, a settembre. Dentro, trovavo dei semi che poi spargevo. Questa pianta dà un legno molto duro con sfumature rosa», racconta l’artista.
Hyber è fra i ventisette autori invitati alla mostra Siamo foresta, presso la Triennale Milano, nata dal partenariato con la Fondation Cartier. La rassegna, visitabile fino al 29 ottobre, è realizzata con l’antropologo Bruce Albert e il direttore artistico della fondazione parigina Hervé Chandès (exhibition design di Luiz Zerbini).
Cosa ha rappresentato la foresta durante la sua infanzia? Era un luogo di sogni, di vite sconosciute, c’erano ovunque gli odori dei frutti e gli alberi ad alto fusto che arrivavano fino al cielo. Sono nato in una piccola valle della Vandea vicino all’oceano dove gli alberi erano radi. Erano stati tagliati durante la rivoluzione; dopo Napoleone era rimasta solo la foresta di Marval. Il territorio era però disseminato di piccole sorgenti e piccoli animali. Spesso camminavo cercando di deviare l’acqua che scorreva verso il fiume…

Fabrice Hyber, crédit : Charles-Henri Paysan / Lumento

In che misura la sua formazione scientifica ha influito sul concetto di paesaggio, sia esso naturale, antropizzato o artistico?
Ho imparato a razionalizzare, a capire, a trovare le origini verificando le ipotesi riguardo ciò che esisteva prima. La scienza è anche un formidabile strumento per mettere in discussione osservazioni che non sembrano congrue con ciò che stiamo imparando. Inventare sistemi per capire il mondo è un esercizio che funziona sempre.

Ha piantato anche semi che danno vita a specie antiche e in via di estinzione?
Sì e continuo a farlo, reintroducendo varietà e semi estinti e, talvolta, anche piante di specie che potrebbero resistere e contrastare naturalmente i cambiamenti climatici.

Con quali altri artisti si sente in affinità elettiva, collaborando per i suoi progetti?
Ho spesso collaborato con Honoré d’O di Gand e Bjarne Melgaard di Oslo. Mi sento vicino ad autori giapponesi come ChimPom o Manuel Ocampo di Manila. Con Honoré abbiamo realizzato alcuni disegni telepaticamente, inventando protocolli per rivelare la simultaneità delle informazioni. Con Bjarne, invece, ci siamo scambiati i ruoli, realizzando gli allestimenti delle mostre l’uno dell’altro. Con Sheroanawe Hakihiiwe dell’Amazzonia (artista indigeno Yanomami, ndr), in Venezuela, abbiamo recentemente condiviso gli stessi dipinti per mescolare le nostre storie e le nostre foreste.

La visione filosofica della natura di Gilles Clément è stata una fonte d’ispirazione?
Personalmente, l’ho incontrato e conosciuto meglio quando ho deciso di seminare il bosco al posto di piantarlo: volevo essere sicuro di questa mia ipotesi. Ibridazioni, mutazioni, espansione del vivente sono nozioni che ho assimilato molto rapidamente e vedere forme che lo rivelano, nei giardini progettati da Clément, ha rafforzato la mia azione.

Può descrivere il famoso «verde Hyber»?
Il verde Hyber è quello del giovane germoglio in primavera quando l’energia della natura è decuplicata ovunque. O il verde brillante che corrisponde all’inizio della vita. Se gli alberi sono società, ogni foglia è un essere umano: gli umani verdi delle mie opere vengono da lì.

Perché proprio l’ecosistema forestale è così importante per immaginare un mondo migliore?
La foresta, con tutti i suoi strati, è un sistema complesso e profondamente vitale. Un bosco è come un giardino: ci offre tutto, ossigeno, acqua, frutti, cure. Se scompare, non potremo che morire! Non esiste nessuna sostituzione possibile. Imparare a convivere con gli alberi è uno dei pilastri del nostro nuovo mondo. Siamo esseri nati dalla foresta dove tutto cresce e si mescola. Separare gli ingredienti conduce a una fine certa.

Cosa può dire un artista alla politica che ritarda le soluzioni e non mette al primo posto la salute della Terra e dell’ambiente che ci circonda?
L’artista può stimolare comportamenti diversi attraverso le sue stesse azioni, creando nuove forme di visibilità. Un’opera è sempre rivelatoria e sposta la prospettiva con cui si guarda alle cose, inventa un punto di vista nuovo. L’artista, quindi, riesce a mostrare ciò che è possibile ottenere con i nuovi dati globali e plasmare strumenti per sopravvivere alle inesorabili perdite di beni comuni; oltretutto, il suo lavoro si preserva anche dopo la morte. L’opera accompagna la società con l’invenzione, l’impegno, la trasmissione, la sua creazione ci insegna qualcosa. Inoltre, può essere riciclata. È un importante apprendimento. L’artista è un modello, è iperresponsabile. Ritengo che l’arte – e anche la sua costante messa in discussione, così come la sua capacità di produrre idee –sia oggi l’unica fede possibile.

 

SCHEDA

«Siamo foresta» alla Triennale di Milano e in partenariato con Fondation Cartier pour l’art contemporain, riunisce le opere di 27 artisti, provenienti da culture e contesti diversi, per lo più latinoamericani e molti dei quali appartenenti a comunità indigene. Oltre il 70% delle opere in mostra proviene dalla collezione parigina. Nel progetto espositivo sono incluse nuove creazioni, pensate ad hoc, frutto di scambi e conversazioni dalle quali sono scaturiti sodalizi – in particolare quello tra gli artisti Sheroanawe Hakihiiwe, yanomami del Venezuela, e il francese Fabrice Hyber; l’incontro tra l’artista di Rio de Janeiro Adriana Varejão e Joseca Mokahesi, yanomami brasiliano; e la collaborazione più recente tra la yanomami Ehuana Yaira e Cai Guo-Qiang, artista cinese con base a New York.