Visioni

Fare cinema «In progress»

Fare cinema «In progress» – foto Roberta Gialotti

Laboratori Come offrire ai giovani cineasti italiani un sostegno nella ideazione dei loro progetti? Il Milano Film Network prova a rispondere con un workshop di sviluppo nel corso del quale i partecipanti arrivano a un primo trattamento del loro film. Alla fine una commissione deciderà i vincitori, in premio due finanziamenti. Docenti dell’edizione 2015, Carlo Hintermann e Leonardo Di Costanzo

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 10 luglio 2015

«Bisogna portare a casa i buoni prodotti, piuttosto che un vecchio dado, una mezza cipolla, dell’olio di semi. Come metterli insieme lo vedremo dopo. Cominciamo col portare a casa dei bei momenti di cinema», dice Leonardo di Costanzo parlando a un suo studente. Poco lontano, in un’altra stanza della Fabbrica del Vapore di Milano trasformata in aula dall’aspetto informale, Carlo Hintermann parla con un ragazzo di una necessità analoga: la ricerca di «pezzi di cinema». I due cineasti – Di Costanzo autore de L’intervallo, Hintermann di The Dark Side of the Sun, e anche produttore, tra i suoi film Ana Arabia di Gitai – seguono i ventiquattro ragazzi selezionati per il workshop «In Progress» – a cura del Milano Film Network, in collaborazione con il festival milanese Filmmaker, e il finanziamento della Fondazione Cariplo.

 

 

Giunto al suo secondo anno di attività, il workshop segue i vincitori per alcuni mesi nella preparazione di un progetto per un film. Da aprile a settembre, i giovani filmmaker si ritrovano periodicamente per un weekend a Milano nel corso del quale incontrano i loro insegnanti e si confrontano sui progressi fatti. Dodici di loro insieme a Hintermann, gli altri dodici con Di Costanzo tratteggiano lentamente un percorso che li porterà al dossier finale, una sorta di primo abbozzo del loro film che verrà giudicato da una commissione composta dai loro stessi insegnanti e da professionisti esterni. I cinque vincitori potranno continuare il percorso accompagnati dallo staff di «In progress», due avranno un finanziamento di cinquemila euro, ed uno di duemila.

 

 

La loro provenienza geografica, così come le loro esperienze precedenti sono fra le più diverse.

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Claudia Brignone, ad esempio, ha trent’anni, viene da Napoli, ed al suo attivo ha già un documentario – La malattia del desiderio – premiato Salina Doc Festival dell’anno scorso. Ma non per questo si sente sicura di sé: «Noi documentaristi – dice – siamo delle anime solitarie che devono capire cosa vogliono dire. Per questo è così importante confrontarsi con dei registi».

 

 

 

Il progetto a cui sta lavorando all’interno di In progress nasce da un cortometraggio, L’altalena, che Brignone ha realizzato in un altro laboratorio di cinema a Napoli, ambientato nella villa comunale di Scampia: «Un posto bellissimo, pieno di verde alle cui spalle si stagliano i palazzoni delle Vele».

 

 

Al workshop di Milano aveva presentato a Carlo Hintermann un’idea più ambiziosa, che si allargava oltre la villa per comprendere tutta Scampia: «Volevo dividere geograficamente il quartiere e seguire delle storie al suo interno» racconta. Alle volte, però, i «bei momenti di cinema» sono più facili da trovare nelle piccole cose: «Carlo mi ha consigliato di tornare a lavorare solo sulla villa comunale, di restringere il campo per non perdermi in un ambiente troppo vasto».

 

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Anche Marco Longo è un allievo di Hintermann: di Genova, studia alla scuola di cinema di Milano, ha già girato alcuni cortometraggi e scrive sul sito  Filmidee. Nel suo progetto vuole «raccontare da vicino la vita delle persone in stato vegetativo, delle loro famiglie e dei medici che li curano».

 

 

Dice: «Mi sono appassionato al recente dibattito scientifico sulla coscienza delle persone in questo stato, ai tentativi di testare le risposte coscienti dei malati e soprattutto di stabilire se ce ne siano». Insieme a Hintermann cerca di capire da quale prospettiva entrare in questo mondo, e nell’ambiente della clinica. «Devi cominciare ad avere una relazione con le persone – gli dice Hintermann durante il loro colloquio – E scegliere la tua posizione». In un film del genere, gli spiega ancora, «tutto è incentrato sulla capacità relazionale».

 

 

Al fianco di Marco c’è Alessandro Stellino, uno dei cinque tutor che aiutano i ragazzi. Gli altri sono Luca Mosso, Alice Arecco, Ottavia Fragnito e Daniela Persico. I tutor seguono gli studenti ancora più da vicino, passo dopo passo, con scambi di mail, telefonate ed aggiornamenti costanti. Stanno al loro fianco quando ad uno ad uno vengono chiamati a discutere i loro progressi con i due docenti mentre gli altri ascoltano, qualche volta intervengono, spesso prendono appunti.

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Luca Mosso segue gli Aves Project, un collettivo di ragazzi che frequentano l’Accademia di Brera. Sono fra i pochi ad avere già delle immagini a disposizione e le mostrano a Hintermann: c’è una donna che cammina lungo la strada di notte, e parla della sua missione salvare i rospi – spinti «dall’istinto folle di andare al lago per accoppiarsi» – dalle macchine che sfrecciano. L’episodio sui rospi è parte di un trittico sugli amanti degli animali, i ragazzi discutono con il cineasta il modo migliore per far arrivare allo spettatore quello che lui definisce «il viaggio epico dei rospi».

 

 

Poi mostrano le riprese di una riunione dei «salvatori di ranocchi», Hintermann guarda e dice: «Le riunioni vanno girate con almeno due telecamere, perché quello che può succedere è imprevedibile».

 

 

Insieme ai due registi e ai tutor, gli studenti di «In progress» hanno la possibilità di assistere a delle masterclass con altre figure professionali del cinema. Quest’anno hanno incontrato Roberto Minervini (Louisiana), che ha raccontato il metodo di lavoro con cui costruisce i suoi documentari; i registi di Materia oscura Massimo D’Anolfi e Martina Parenti; il produttore Paolo Benzi (L’estate di Giacomo); la sceneggiatrice di Garage Olimpo Lara Fremder; il direttore del festival di Locarno Carlo Chatrian. La prossima sarà Michèle Soulignac, direttrice di Périphérie, realtà che come «In progress» segue i progetti di giovani cineasti.

 

 

Nel pomeriggio, seduti intorno ad un tavolo dopo un rapido pranzo al ristorante cinese, ci sono gli studenti seguiti da Leonardo Di Costanzo. Nicola Roda, ventinovenne piacentino, vorrebbe farsi assumere su una piattaforma di estrazione petrolifera per filmare il mondo di chi ci lavora e ci vive. Di Costanzo osserva che difficilmente troverebbe il tempo per lavorare e filmare contemporaneamente, a meno che – scherza – non voglia rinunciare a dormire per mesi. Ancora una volta il problema è come introdursi nell’universo che si vuole raccontare, come trovare la giusta angolazione e conquistare la fiducia di chi lo abita. Scegliere una persona che abbia già esperienza in questo campo come guida può essere una soluzione? Di Costanzo lo ammonisce: «Il personaggio non deve essere un passepartout».

 

 

La soluzione forse è più semplice: Nicola – suggerisce il regista napoletano – potrebbe ambientare la sua storia nel centro di training per chi farà questo lavoro, dove è già stato, e che si presta anche da un punto di vista scenografico. Di nuovo il segreto e la risposta ai problemi è la semplicità. Ma bisognerà aspettare il prossimo incontro per sapere cosa ha deciso Nicola.

 

 

Manuel Coser, come gli Aves Project, ha già del girato che ha mostrato in precedenza a Di Costanzo. Il suo progetto verte intorno ad un ergastolano che ha da poco iniziato un corso di teatro per detenuti, si sta laureando in medicina ed è diventato il bibliotecario del carcere. Oggi Manuel aveva il compito di dare la risposta a due domande poste dal suo insegnante: «Perchè vuoi raccontare questa storia per immagini anzichè con un testo scritto?». E: «Cosa vuoi raccontare?». Manuel comincia a parlare ma Di Costanzo non è convinto dal suo personaggio su cui imbastisce una rapida ed efficace lezione di cinema.

 

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«Il protagonista che deve portare il film sulle spalle lavora contro di esso. Si è già costruito un’immagine con cui rappresentarsi, cosa che nel cinema è terribile».

 

 

L’ergastolano, spiega ancora Di Costanzo «non è un personaggio con cui entri in empatia, non ti accoglie. È già definito, e hai come l’impressione che la macchina da presa lavori solo per confermarlo. L’umanità che c’è dietro non si trova con i discorsi. Mi arriva solo la presentazione della sua autoassoluzione, che dal punto di vista dell’oggetto filmico non ha nessun interesse». La via da intraprendere allora è un’altra: «O il film diventa una lotta in cui tu tenti di far cadere la maschera che si è messo addosso o ti limiti a filmarla, ma questo ha un effetto respingente». Dunque bisogna andare in cerca di qualcosa che «sfugge al suo controllo e restituisce una parte della sua verità».

 

 

Il segreto è nello sguardo, nelle immagini, nella ricerca della realtà, non nei discorsi. Per spiegarlo il regista racconta un aneddoto su una sua esperienza di lavoro in Ungheria. «Filmavamo una ragazza che vendeva ninnoli al mercato, un signore si è levato il cappello per salutare e sotto ne aveva un altro identico. Questa è la realtà che ti viene incontro». Non olio di semi e vecchie cipolle.

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