Un pezzo di cinema italiano lo ha fatto Umberto Lenzi. Un pezzo importante. Quando il cinema italiano era ancora un’industria che esportava modelli e prototipi riempiendo le sale di tutto il mondo – da quelle della 42esima di New York a Hong Kong – Umberto Lenzi era uno degli uomini di punta di quell’industria, lo era per davvero e non si sognava (ancora) di essere «sistema». Certo, guardando indietro ci si rende conto che forse l’apogeo di quella produzione era già, purtroppo, l’inizio della fine. Se non ce ne siamo accorti è anche grazie a Umberto Lenzi e al suo cinema senza fronzoli che andava dritto sparato dove doveva andare. Con registi come lui e film come i suoi, che poteva andare storto?

 

 

 
E invece. Come nei migliori film, quello che sembrava un colpo perfetto inizia a fare acqua da tutte le parti. Ma la colpa non era e non sarà di Umberto Lenzi e dei suoi film. Lui ha fatto tutto quello che poteva, per il cinema italiano. Nato a Massa Marittima nel 1931, si diploma al Centro Sperimentale nel 1956. Il volume Una vita per il cinema. L’avventurosa storia di Umberto Lenzi regista di Silvia Trovato e Tiziano Arrigoni racconta nel dettaglio l’avventurosa trama di quei giorni. Lui, amante di cineasti come Don Siegel e John Huston, innamorato dell’anarchismo spagnolo (di cui sapeva tutto), si vedeva e si sognava come un regista al servizio della Warner: autore di veloci polizieschi, americani nella forma e nella sostanza. La sua carriera inizia nel segno dell’avventura, di Salgari, di Maciste e di Zorro. Come un Michael Curtiz di Cinecittà, Lenzi si mette al servizio di un’idea di cinema popolare fatto di un sincretismo quasi postmoderno nella sua voracità (Sandok, il maciste della giungla, per citare un titolo). A rivederli oggi, i film di quel periodo si presentano solidi, come fuori dal tempo. Portatori di una dignità perduta. E, soprattutto, di un fare ormai dimenticato. Lenzi era bravo e veloce.

 

 
A cavallo del 1963 e dell’anno successivo firma otto film. Dopo essere passato per degli esercizi spionistici, anticipa nel 1966 con Kriminal il Diabolik di Mario Bava. Nel 1967, dimostra che rallentando riesce a realizzare ottimi film «all’americana». Prodotto da Alberto Grimaldi, firma nel 1967 Attentato ai tre grandi di cui scrive anche soggetto e sceneggiatura. Una produzione di grande respiro che rivela la legittimità delle ambizioni lenziane. Nel 1969 inizia con Orgasmo la celebrata stagione dei gialli, impreziosita dalla presenza di Carroll Baker, che comprende anche Così dolce… così perversa (realizzato nello stesso anno), e Il coltello di ghiaccio (1972). Guarda caso, in La legione dei dannati, film bellico realizzato sempre nel 1969 (la velocità e la prolificità di Lenzi erano proverbiali), figura fra gli sceneggiatori Dario Argento, un attimo prima di spiccare il volo sulle ali dell’uccello dalle piume di cristallo. Dopo quasi una trentina di film, scorrazzando lungo tutto lo spettro istituzionale dei generi e non solo, Lenzi inaugura, involontariamente, il filone cannibalico italiano con Il paese del sesso selvaggio.

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Su soggetto di Emmanuelle Arsan (sì lei…) e sceneggiatura di Francesco Barilli e Massimo D’Avack dirige un cripto rifacimento in chiave thailandese di Uomo chiamato cavallo con Ivan Rassimov al posto di Richard Harris (e come dimenticare Me Me Lay?). Insomma: Lenzi era sempre in anticipo sui tempi. Non a caso nel 1974 firma quel che è considerato da sempre uno dei suoi film migliori. Milano odia: la polizia non può sparare. Concentrato geniale e feroce di ultra violenza, interpretato da un Tomas Milian ben oltre lo stato di grazia, è un insuperato esempio di nichilismo, il controcanto nero dell’Italia del benessere degli anni Settanta.

 

 
Della stagione dei poliziotteschi  Lenzi sarà uno dei massimi protagonisti e la sua collaborazione con Tomas Milian iconica. Roma a mano armata (1976) è uno dei titoli alti del genere (con Napoli violenta), cui le musiche di Franco Micalizzi conferiscono ulteriori lettere di nobiltà. In Tomas Milian Lenzi proietta una sorta di astrazione eversiva, sottoproletaria, anarchica che oppone al poliziotto di turno (in genere Maurizio Merli nei confronti del quale l’attore di origine cubane nutriva un misterioso intreccio di odio e amore – e i calci che il Moretto rifila a Tanzi erano tutti veri, tant’è che Lenzi fu costretto a interrompere le riprese).

 

 
Lenzi racconta che al cinema il pubblico fischiava Merli e applaudiva Milian (per la disperazione di Merli che una volta abbandonò il cinema quasi in lacrime). In Il trucido e lo sbirro (1976) fa la sua prima comparsa Er Monnezza, la cui paternità è attribuita allo sceneggiatore Dardano Sacchetti, allo stesso Lenzi e a Milian. Nel 1978, dopo i fasti del poliziottesco ritorna al genere bellico con Il grande attacco, nel quale dirige, fra gli altri, Henry Fonda e John Huston che, stando alle parole del diretto interessato, resta molto colpito dalla velocità di esecuzione del regista.
Gli anni Settanta non sono ancora finiti ma Umberto Lenzi ha ormai una filmografia enorme alle spalle. Nel 1980 ritorna al genere cannibalico, che non amava (è un eufemismo), con Mangiati vivi! e l’anno successivo con Cannibal Ferox, la punta estrema del genere condito di un numero spropositato di violenze efferate. Negli anni Ottanta il cinema italiano di una volta è finito ma sono in pochi ad accorgersene. Lenzi si dibatte fra i generi cui si aggiunge anche la commedia (Cicciabomba con la Rettore, un Pierino…). Fantasy, horror, polizieschi, televisione. Lenzi non si tira mai indietro. Non molla mai. Quel terribile caratteraccio gli serviva anche a questo.