2012, primavera araba, poco dopo la Rivoluzione dei Gelsomini (2010-’11) in Tunisia. Farah Khelil (1980) – artista tunisina che vive a Parigi dove ha intrapreso un percorso universitario di recherche-création proprio a tanti plasticiens – osserva la chioma degli eucalipti nelle foreste e a bordo delle strade. Endemico dell’Australia, quest’albero ha fatto il giro del mondo, piantato durante l’epoca imperiale e poi coloniale. Tuttavia, attenti solo agli eventi socio-culturali, ignoriamo spesso come i diversi ecosistemi della costa mediterranea – nell’ordine Algeria (1862), Marocco, Tunisia e Libia – sono stati trasformati dalle ondate d’occupazione. O, più in generale, il fatto che i paesaggi, considerati a torto naturali, sono portatori di tracce storiche e socio-culturali.

Un dettaglio che non è sfuggito allo scrittore e giornalista Samy Ghorbal che, in Orphelins de Bourguiba et héritiers du Prophète (2012), stabilisce un’opposizione tra la palma e l’eucalipto o tra il nakhl e il kalatus. Il primo è l’albero dell’identità arabo-islamica, citato 23 volte nel Corano, il secondo quello dell’influenza europea; il primo è endogeno, il secondo esogeno, importato dai coloni, da cui il tentativo (fallito) di sradicarlo per sostituirlo con le palme perché utilizzato anche per delimitare il territorio; il primo si esprime in arabo, il secondo parla francese. Persino le loro chiome si oppongono: austera e verticale la palma, esuberante e orizzontale l’eucalipto. La sua presenza nel paesaggio tunisino mostra così, a chi sa coglierlo, il rapporto irrisolto fra tradizione e modernità in un Paese che, sin dalla sua Costituzione del 1959, promuove uno Stato secolare ma non laico, volto verso il progresso ma attaccato alle sue radici religiose. Che bastino due alberi per rimettere in questione l’identità nazionale? Di certo questo gesto di botanica politica o di flora post-colonialista colpisce Khelil. Una delle modalità più classiche in cui si è esercitata la botanica – osservare un albero –, non è solo un rimedio efficace alla plant blindness ma anche un potente strumento per comprendere i processi di modernizzazione, dalla fase coloniale all’indipendenza.

Effet de serre: il gioco di parole funziona anche in italiano e fa riferimento alla perturbazione dell’equilibrio termico del pianeta quanto alla serra di coltivazione o di riparo di specie vegetali. È il nome del progetto – di ricerca quanto espositivo – di Khelil. Include una mostra al Jardin des plantes di Tunisi curata da Clelia Coussonnet, con la pubblicazione dell’eponimo catalogo (Bao Books, Tunisia 2022). Il materiale d’archivio si alterna alla diffusione nell’atmosfera dell’odore d’eucalipto, mentre video e cianotipi sfidano l’umidità e il clima artificiale della serra. Isola climatica che ignora il succedersi delle stagioni e detronizza il sole, la serra permette d’interrogare il dispositivo dell’esposizione dai tempi della modernità o l’esposizione in quanto dispositivo moderno.

Parallelamente, Khelil lavora sul patrimonio architettonico di Tunisi, come il giardino d’inverno nel casino municipale in stile Art nouveau, oggi trasformato in centro commerciale (Palmarium). Effet de serre è infine volto al finanziamento del restauro della serra orticola al Parco del Belvedere, dove crescono ottanta specie di alberi provenienti dai cinque continenti. Progettato da un architetto paesaggista francese sul modello del parigino Parc des Buttes-Chaumont, racconta una storia simile a quella della palma e dell’eucalipto. Secondo alcuni, il maggior contributo della botanica alle scienze naturali consiste nella classificazione; Khelil ci permette invece di ritrovare, al cuore del vegetale, un modo originale di accedere alla nostra memoria collettiva.