Parlare del nuovo episodio di Far Cry (Ubisoft), il sesto (esclusi gli spin-off), porta a riflettere sulla inconsistenza di posizioni vecchie e nuove dei «game studies».

La posizione «vecchia», oggi in realtà non sostenuta più in modo intransigente da quasi nessuno (tranne irriducibili quali Jesper Juul), è la inessenzialità della narrazione nel medium videoludico. L’importante, sosteneva questa scuola, sono le meccaniche: la narrazione nel videogioco è al meglio un abbellimento, al peggio una distrazione utile solo a nascondere meccaniche poco elaborate.
Il continuo successo di un titolo come Far Cry che differenzia un episodio dall’altro quasi per nulla dal punto di vista delle meccaniche (un tradizionale sparatutto in prima persona con una mappa che va rivelata poco alla volta conquistando le postazioni nemiche) contraddice completamente tale assunto.

Perché la forza di ogni singolo episodio di Far Cry è la capacità di assorbire i giocatori in storie coinvolgenti e soprattutto di metterli di fronte a personaggi – i villain – narrativamente interessanti. Nel caso di Far Cry 6 il «cattivo» è Anton Castillo, presidente dell’isola caraibica fittizia di Yara, che ha scoperto il modo di estrarre medicine antitumorali dal trattamento del tabacco, prodotto principale dell’isola.

Il costo del benessere economico portato dall’esportazione del «Viviro» è però pagato dal regime dittatoriale di Castillo con l’obbligo per gli isolani contrari al regime o semplicemente indigenti di lavorare nelle piantagioni del tabacco trattato, altamente intossicanti.

Nei panni (femminili o maschili, a nostro piacimento) di Dani Rojas, ex recluta nell’esercito yarano, successivamente arruolata dalla guerriglia anti-Castillo dopo che i suoi amici sono morti nel tentativo di fuggire da Yara, dobbiamo collegare le bande sparse sull’isola per fare fronte comune contro le forze a supporto del presidente. Ulteriore elemento destabilizzante: il figlio adolescente di Castillo, Diego, che di allinearsi alla brutalità del padre.

La posizione «nuova», presente nello studio di Braxton Soderman (Assistant Professor di Film and Media Studies all’Università della California) Against Flow, pubblicato nei mesi scorsi da The MIT Press, è che il meccanismo del «flow» utilizzato dai videogiochi per promuovere il coinvolgimento dei giocatori è uno strumento di distrazione di massa che non permette ai giocatori di sviluppare una riflessione critica sul videogioco a cui stanno giocando, sul mondo da esso rappresentato e sul modo di produzione da cui è creato. Il «flow», il flusso di sfide che progressivamente coinvolgono il giocatore mantenendolo concentrato sul gioco gli impediscono – secondo Soderman – una riflessione critica, distaccata sul gioco e soprattutto servono a distrarlo dai problemi reali della società, ad impedire l’elaborazione di una strategia politica.

Eppure giochi come Far Cry 6 possono invece farci parteggiare istintivamente con la parte che impersoniamo nel gioco: guerriglieri «comunisti» ispirati ai movimenti di liberazione presenti nell’America centrale e meridionale, ma anche alle YPG e YPJ del Rojava, che alternano la salsa a Bella Ciao; possono farci riflettere sulle merci – medicine in questo caso, ma anche tutta la strumentazione elettronica ancor più resa ubiqua ed indispensabile dal lavoro post pandemia – di largo consumo in Occidente prodotte da manodopera sfruttata ai limiti della schiavitù nei paesi del cosiddetto Terzo Mondo; possono ricordarci che quando un dittatore viene abbattuto, solitamente è perché un altro ne prenda il posto. Ed è proprio il meccanismo del «flow», che permette al giocatore d’immergersi a fondo nella storia e nei personaggi di Far Cry 6, a presentare al giocatore questi scenari.

Certo, Far Cry 6 resta e vuole rimanere solo un gioco, non un manuale per guerriglieri rivoluzionari. Ma a volte immaginare d’esserlo nella fantasia o nei mondi virtuali può darci la forza di compiere scelte un po’ più coraggiose e controcorrente del solito anche nella vita di tutti i giorni.