L’isola d’Irlanda spicca per il numero di romanzi tradotti nel nostro paese. E si parla di isola proprio per includere le sei contee del Nord che sono ancora suolo britannico. Tutti ricorderanno, più di venti anni fa, il fenomeno di vendite che fu Eureka Street di Robert McLiam Wilson: un fenomeno tutto italiano, se è vero che in Irlanda è un’opera semisconosciuta. Un caso molto dissimile da quello del successo internazionale degli ultimi anni di Milkman di Anna Burns, vincitore del Man Booker Prize nel 2018.

SEMPRE DAL NORD, per la precisione dalla contea di Down, proviene Olivia Fitzsimons, di cui esce ora, per le pregiatissime Edizioni Atlantide, e nella ritmata e briosa traduzione di Ilaria Oddenino Le voci non si fermano (pp. 380, euro 26). È un romanzo d’esordio che sta facendo molto parlare di sé, e per valide ragioni.
In comune con tanti libri di autrici e autori contemporanei del Nord ha la circostanza per cui il conflitto rimane sempre sullo sfondo. Ma non per dimenticarlo. Tutt’altro. La scelta parrebbe quella di farne sentire la presenza spettrale, una presenza alla quale, volenti o nolenti, negli anni le persone si sono infine abituate.
È sullo sfondo, ma fa le sue chirurgiche incursioni nel testo; come capita con i sottili riferimenti alle goffe restrizioni implementate dal governo britannico riguardanti gli esponenti repubblicani di Ira e Sinn Féin tra il 1988 e il 1994: se intervistati, non si dovevano sentire le loro voci. Di conseguenza, per anni Gerry Adams e compagni sono stati doppiati.
Questa presenza/assenza dei «disordini» è un bordone continuo nel romanzo, che parla però di altro: un tema tra tutti, il tendere ostinato e contrario verso forme di estrema libertà individuale da parte di una madre e, molti anni dopo, di sua figlia.

L’ALTALENA TEMPORALE è significativa, perché l’azione si sposta continuamente il 1981, anno della morte di Bobby Sands e di altri nove volontari di Ira e Inla per sciopero della fame in un carcere britannico, e il 1994, anno dello storico cessate il fuoco dell’Ira, seguito da quello definitivo del 1997. La sola presenza di queste due date rende la vicenda significativa anche in quanto riflessione politica, oltre che sociologica.
Sociologica perché ha al centro, come tanti romanzi irlandesi di oggi, la storia di una famiglia disfunzionale. Abbiamo una madre legata molto più ai figli che al marito, e desiderosa di un tipo di rapporto che è per lei impossibile trovare nel matrimonio; e una figlia che, senza saperlo, ne ripercorrerà i passi tanti anni dopo.

È PERÒ ANCHE UNA STORIA di adolescenze turbate. Turbate dalla droga, dall’alcol, dal sesso, dalla violenza. Una storia di amori tossici e implacabili, di impulsi di autodistruzione sicuramente connessi a un altro tipo di disfunzionalità, questa sì legata direttamente al conflitto. La società nordirlandese, infatti, è stata a lungo assillata da povertà e disoccupazione cronici, soprattutto nella comunità cattolico-nazionalista. La segregazione, anche scolastica, era la norma, e la vita sociale che si poteva condurre a Belfast e dintorni era sempre giocata sul ciglio della crisi. Non a caso, nel libro abbiamo incursioni nella Repubblica, a Sud, dove anche la vita notturna giovanile è diversa: priva di restrizioni, di regole, di tabù.
Per quel che riguarda la storia della figlia, Sam, gli anni sono quelli della Celtic Tiger: una crescita economica imprevista e spropositata, confinata alla Repubblica e mai sfociata nel Nord, seguita da progressive deregolamentazioni che sono poi state foriere, in anni a noi più vicini, di enormi catastrofi finanziarie; come quella del 2008, o quella che secondo alcuni economisti, è tuttora alle porte.
La narrazione è audace, libera da freni inibitori, e lo stile veloce e intenso, adatto a questa bipolarità Nord-Sud che è un’altra nota continua di sottofondo. Ecco il Nord: «Il sabato notte a quest’ora il centro città di Belfast è un mortorio, ognuno confinato nel proprio fazzoletto di terra. Una stronzata di abitudine serale che ci portiamo dietro dai Disordini, anche se non si può definire un retaggio, visto che i Disordini non sono finiti. È più una sorta di brutto hangover, di quelli che ti fanno ricominciare a bere solo per non pensarci».

ED ORA ECCO IL SUD: «Dublino è diversa. Puoi andare dove vuoi. Ma Gav riesce comunque a imboccare un paio di volte la strada sbagliata e Becca si ritrova a rispondere con un dito medio ai tassisti che suonano alla loro targa del Nord. Parcheggiano vicino al Whelan’s, in un dedalo di vie eleganti fatto di immacolate casette di mattoni rossi, che un istante più tardi lasciano il campo ad appartamenti avvolti dal cemento, la città che cambia umore mentre da George’s Street procedono verso Temple Bar fino al Rock Garden».
Olivia Fitsimons si è trasferita anche lei a Sud, nella tranquilla contea di Wicklow, oltre le cosiddette Dublin Mountains – delle colline in verità, che fanno da corona meridionale alla capitale. Qualcosa di simile fece tanti anni prima il poeta Seamus Heaney, anche lui dal Nord finito a Wicklow. Chissà che queste scelte non dipendano dopo tutto dalla necessità del distacco, per poter guardare e capire meglio la situazione che ci si è lasciati indietro.
È probabilmente un distacco da cui nasce anche questa narrazione, una sorta di esilio letterario sui generis. Il libro, pur non parlandone nello specifico, rappresenta infatti una ulteriore articolazione del tema esilico: abbandonarsi e così abbandonare anche il contesto che ci costringe, al fine di inseguire un’ombra di libertà. Tutti i personaggi, a loro modo – lo dimostra l’effetto sorpresa finale – scappano da loro stessi, esattamente come vorrebbero fuggire dalla propria condizione.
È questa, forse, un’altra importante metafora della scrittura.