LUNEDÌ Interno giorno. Io e il figlio vediamo dopo pranzo The social network (David Fincher, 2010), che è un film strano, forse manco tanto riuscito, troppo verboso, ma mi interessava che il ragazzo capisse delle cose (quali ancora non mi è chiarissimo). Interno pomeriggio. Il ragazzo gioca ai giochetti. Faccio il tutorial del ciambellone da sola, senza il figlio che mi sostiene, lo faccio quasi controvoglia, solo perché me lo hanno chiesto, sono moscia e un po’ triste. Il marito si sostituisce al figlio e mi assiste. Monotonia familiare come in Marriage story (Noah Baumbach, 2019), prima della crisi.

MARTEDÌ Interno giorno. Però sto all’esterno, nel terrazzino. Seduta sulla panchina a parlare con la dottoressa della mente. Mi sembrava non avesse senso la terapia al telefono invece no, funziona. E poi prendo il sole della mattina che è quello buono. Esterno giorno. Tabaccaio, farmacia, supermercato biologico. Interno pomeriggio. Mi abbiocco con le cuffie nelle orecchie. Interno sera. Zuppa e The Morning show, una fantastica serie sul #metoo, consigliata da un’amica che di serie ci prende. Motto della sera: «Domani è un altro giorno» (Via col vento, Victor Fleming, 1939).

MERCOLEDÌ Interno giorno. Sveglia presto che i gatti hanno rotto il barattolo di vetro coi croccantini: attenzione ai piedi entrando in cucina. Punizione per loro: dieta. Tutte le stanze sono occupate dallo smart working del padre e dalla didattica a distanza del figlio. Dove mi nascondo? Mi sento come in Mamma, ho perso l’areo (Chris Columbus, 1990), asserragliata a casa contro un nemico invisibile al quale preparare trappole per vincere la battaglia.

GIOVEDÌ Interno giorno. Colazione con distruzione di una delle quattro sedie intorno al tavolo. Tensione che si taglia con il coltello. A breve comincio a scrivere sempre la stessa frase, come un mantra: il mattino ha l’oro in bocca, il mattino ha l’oro in bocca, il mattino ha l’oro in bocca. Ricordo bene quando vidi a quindici anni Shining (Stanley Kubrick, 1980): per via della somiglianza tra mio padre e il protagonista interpretato da Jack Nicholson e per via della similitudine di una famiglia composta da tre elementi, sognai tutta la notte l’impazzimento di mio padre che cercava me e mia madre per ucciderci. Finito l’incubo dalla troppa paura svegliai mamma e passammo il resto della notte ad attendere l’alba con la finestra aperta sul sottopassaggio rumoroso del lungotevere, testimone sfacciato della vita reale.
Esterno giorno. Esco a fare provviste, forse inutili ma necessarie al mio sistema nervoso. Compro leccornie e capisco che questo è il mio metodo di pacificazione: cibo in cambio di amore.
Interno pomeriggio. Con le cuffiette wireless prese coi punti del supermercato faccio yoga: grandissima soddisfazione di corpo e mente.
Interno sera: di nuovo la serie del dottore che ha perso la memoria ed è ridiventato buono che mi mette di buon umore.

VENERDÌ Interno giorno. Trovo la mia realizzazione nella cucina: compongo un tortino di patate con i quattro tipi diversi che ho comprato: gialla, bianca, viola, rossa. Buonissimo. La crosticina viola fuori è pure bellissima. Seguendo il consiglio di un’ amica sui social, vedo una miniserie in quattro puntate Unorthodox: molto bella. Mi accompagna pure nella vasca da bagno (accrocco una postazione con sedia, cuscini e sopra iPad). Se non fosse che non siamo più liberi di uscire sembrerebbe quasi tutto normale (The Others, Alejandro Amenabár, 2001: i fantasmi alla fine siamo noi e non gli altri).

l’autrice bambina in uno scatto di Franco Angeli

SABATO Interno giorno. Si era deciso col padre di fare uscire il figlio che non metteva piede fuori di casa da venticinque giorni. Allora dai, si esce io e lui. Mascherina (la migliore per lui), guanti in lattice, giacca, chiavi.
Esterno giorno. Scendiamo in strada. Sa un po’ di Mezzogiorno di fuoco (Fred Zinnemann, 1952). Ci si guarda davanti indietro ai lati pronti a sfoderare la pistola. Gli ho detto: «quando vedi qualcuno nella tua direzione ti sposti, cambi traiettoria, lo devi evitare come fosse una palla da biliardo». Ha capito perfettamente. In 1 km e 20 metri non incrociamo nessuno. La nostra è una missione fuori legge e ne siamo consapevoli. La vinciamo.
Interno giorno. Salutiamo mia madre a distanza: è felice, si è fatta bella per noi. Tronfia di essere riuscita nell’impresa rialzo la posta: provo a fare un blitz da Castroni, regno di ogni bontà commestibile di ogni parte del mondo. Percorro vie secondarie, passo davanti al centro vaccini di Prati dove anni fa c’era un dottore baffuto che, in altra sede, mesi dopo avermi punturato, mi abbordò in pizzeria lasciandomi il suo numero di telefono. Ricordo col sorriso l’episodio ma poi ritorno seria e penso quanto sarebbe urgente ora trovare il Vaccino.
Compro cose anni Ottanta, le nuvolette di granchio che c’erano al cinese, la pasta fillo (il marito ha millantato di sapere fare gli involtini primavera), ovetti di cioccolata, quattro etti di thè Ceylon a foglia lunga (che per fortuna trovo, altrimenti avrei dovuto imitare Eliott Gould nelle vesti di Marlowe ne Il lungo addio – Robert Altman, 1973 – quando dopo non aver trovato al supermercato la scatoletta di cibo preferito dal suo gatto, torna a casa e mette la pappa sbagliata nella scatola giusta: il gatto lo sgama, non mangia e fugge via: mio marito pretende solo la foglia lunga, altrimenti non beve thè, il lord).
Interno giorno. Il padre ha ribaltato il salone in quanto a pulizia ma è così pignolo che il resto della casa continua a essere sporca. Vabbè, mangiamo. Io poi in terrazzino tutto il giorno (sempre più nera in viso, sarò scandalosa da vedere, quando qualcuno potrà vedermi).
Interno sera. Cena con serie tv dei canali generalisti, trash e old fashion totale: infatti il figlio adora. Poi telefonate di rigore: mamma, papà. E infine quella di salvataggio all’amica: pianifichiamo un incontro fintamente casuale, come fossimo due rapinatrici di banche alla Bonnie e Clyde (Gangster story, Arthur Penn, 1967), all’unica posta aperta tra centro storico e Trastevere per lunedì: daje.

DOMENICA Interno giorno. Sveglia tutta coccolosa, tutti su mamma, gatto compreso, però pesano, e il figlio starnutisce e gli dico che ha preso freddo che non si è messo i calzini quando si è alzato dal letto e subito finiamo da Il tempo delle mele (Claude Pineateau, 1980) a Kramer contro Kramer (Robert Benton, 1979). Mi metto a fare i cinque tibetani sul mio nuovo splendido tappetino per lo yoga.
Picnic in terrazzino, insalata greca senza la feta che il padre ha dimenticato di prenderla al supermercato. Il pomeriggio passa veloce tra il figlio che vuole fare le caramelle di zucchero d’orzo, poi lui che gioca al telefono con un amico, poi un bagno nella vasca (almeno uno a settimana), poi la trasmissione a quiz che vede al telefono con mia madre rispondendo loro alle domande. Nei ritagli sdraiata sul materassino in terrazzino leggo sul Kindle il romanzo di un amico ritrovato che vive in un altro continente e col quale ci siamo scambiati degli scritti mai pubblicati.
Interno sera. Cena con amici in video chiamata. All’inizio la cosa sembra sempre anomala, poi invece è davvero una ventata di allegria. Il seienne figlio della mia amica milanese (che mi manca un sacco) manda al mio un messaggio vocale molto commovente, lui gli risponde a tono, noi madri ci diciamo che si sono entrambi mossi alle lacrime: che bellezza l’amicizia, evviva la famiglia allargata: Un affare di famiglia (Kore-eda, 2018). Come faremmo senza.

* regista