Arriva al Piccolo teatro nell’ambito di una rassegna internazionale Le retour (ancora stasera e domani le ultime repliche alla sala Strehler), ovvero quel Ritorno a casa che Harold Pinter scrisse nel 1964, e che ora Luc Bondy ha messo in scena all’Odéon parigino, di cui nel frattempo è divenuto direttore (una scelta molto discussa in Francia, perché la sua nomina aveva come patron Sarkozy e sua moglie Carla, e ha provocato un effetto domino sulle istituzioni teatrali d’Oltralpe). Ma Bondy è un regista di lunga esperienza (nell’85 successe a Peter Stein alla direzione della Schaubühne) e di solido mestiere, anche se a tratti pare prendere qualche scorciatoia. Ma nello stesso tempo, per questo Ritorno si è circondato di un cast di massimo smalto. Protagonista Bruno Ganz, il volto di tanto teatro e nuovo cinema tedesco, e con lui sono Pascal Gregory (prediletto in scena e sullo schermo da Patrice Chereau ma non solo) Emmanuelle Seigner protagonista degli ultimi Polanski, e poi Jerome

Kirchner, Micha Lescot e Louis Garrel (di un’altra grande dinastia, per quanto «alternativa»).
Il testo del Ritorno a casa è uno dei più crudeli e acidi che Pinter abbia scritto, se è possibile una graduatoria del genere. Racconta di una «tranquilla» famiglia inglese, dove dall’America torna uno dei figli, che se ne era andato negli Stati uniti sei anni prima, e lavora in una università come filologo. Con lui è sua moglie, giovane e bella, mentre in patria sono rimasti i loro tre figli piccolissimi. A casa è venuta a mancare la madre Jessie, ma resiste ben solido il vecchio, tirannico padre Max (Ganz) erede di una stirpe di macellai, suo fratello Sam, autista pensoso e gentile, e gli altri due figli Joey e Lenny, scombinati e aggressivi, l’uno svitato e dall’oscuro mestiere, l’altro aspirante pugile dopo il lavoro ogni giorno in cantiere. La «visita» di Teddy e di sua moglie sorprende gli altri, ma li spinge anche a iniziative insperate. Figli e padre cominciano a corteggiare la mogliettina, che a sua volta non si sottrae. Suo marito non si lascia sconcertare più di tanto, mentre prepara i bagagli per tornarsene a casa.

Ma chi può restare sorpreso davvero è lo spettatore, e non tanto per la pruderie che lo spettacolo potrebbe ingenerare. È che in quella casetta così inglese, con la sua cucina e il suo soggiorno, prende corpo una sorta di radiografia, sempre più preoccupante, della famiglia, come nucleo sociale, come istituzione, come incubatrice di affetti che si rovesciano senza soluzione in atroci violenze, che sempre appaiono rifarsi a quei principi che la rendono normalmente     «sacra». Quando si delinea la situazione prossima ventura, in cui la bionda Ruth lavorerà per gli altri prostituendosi in un appartamento messole da loro a disposizione (e per il resto dovrà occuparsi di loro, dalla cucina alla lavanderia alla compagnia, compresa quella sessuale), quell’universo maschile di orrore potrà con sollievo constatare che la cellula familiare ha ricostituito la propria integrità.

Come se fosse tornata fra di loro mamma Jessie. Che forse assolveva anche lei a quelle stesse funzioni? Tutte? Qui cala il sipario, sull’inquietante panorama che Pinter ha disegnato, cinquant’anni fa, segnando una condanna senza appello per la più dolce e rassicurante delle strutture sociali. Lì cominciava, e già si estendeva a 360 gradi, l’allargamento delle paure e del pericolo e della perversione, dall’individuo delle prime pièce alla cerchia successiva: la famiglia e poi la società e poi le nazioni, come sottolineeranno i suoi ultimi titoli degli anni novanta.

Su questa incandescenza che brucia l’apparenza quieta e domestica, la regia di Bondy non ha lavorato poco, né male. Forse risuonano curiose le canzoni tutte rigorosamente della Londra anni 60, quasi che quella vicenda scabrosa andasse storicizzata, e quindi disinnescata, in quella temperie swinging. L’affondo pinteriano ha una prospettiva più larga e universale, e a dare questa indicazione ci pensano gli attori. Innanzitutto il grande Bruno Ganz, che per la prima volta recita in francese, ma così intenso e deciso che pare lo abbia sempre fatto (mentre nei giorni scorsi ha girato il pilot di Vatican, serie tv diretta da Ridley Scott dove impersona addirittura il papa). E nel gioco delle proiezioni dell’immaginario non si può non pensare che fosse lui, un tempo, «l’amico americano» che qui rovescia la prospettiva. E improvvisamente rende meno «crudele» o oltraggiosa la recente generazione di drammaturghi inglesi che parevano aver toccato il limite massimo del dolore come dell’abiezione. Molto di questo, con grazia felpata ed apparente, in Pinter c’era già.

Ma attorno a Ganz sono tutti bravi gli altri: nella prima parte a delineare la ragnatela di ruoli e rapporti, per poi lanciarsi nella seconda a squarciare il velo di ogni ipocrisia della famigliola borghese, con tutto il piacere che questo comporta. Uno spettacolo forte, di cui si potrà discutere ma impossibile da sottovalutare. Che ci lancia già nella versione dello stesso testo che Peter Stein sta preparando per il prossimo festival di Spoleto, tra meno di due mesi.