A Milano, fra i grattacieli di Porta nuova, si estende la Bam, acronimo che sta per Biblioteca degli alberi. Si tratta di un’area verde inframezzata da sentieri e striature la cui logica sfugge a chi vi passeggia. Se la si guarda dall’alto, tutto cambia, ed appare un suggestivo gioco lineare e cromatico. Con ogni evidenza, il progetto è rivolto a coloro che lo possono vedere, ossia a chi sta ai piani alti degli edifici prospicienti, che siano sedi corporate o prestigiosissimi edifici residenziali, del tipo Bosco verticale.
Da quel punto di osservazione, anche l’asfittica area bambini, molto meno attrezzata di un parchetto di quartiere, manifesta la sua ragion d’essere, visto che la sua circolarità si incastra perfettamente nell’intreccio di forme progettato da Petra Blaisse. In apparenza, la Bam sarebbe uno spazio pubblico, ma ci viene detto che è strettamente sorvegliato 24 su 24 e la sua gestione è affidata a una società privata. Si tratta poi di un luogo animato, nel senso che ci sono gli animatori, preposti a organizzare le attività al suo interno affinché il tutto risulti coreograficamente congruo. Con ogni evidenza, ci troviamo di fronte non al doloroso pedaggio green che gli sviluppatori hanno dovuto pagare per la loro lucrosa attività edificatoria quanto a un necessario complemento progettuale, dal punto di vista sia visuale sia dell’ecologia sociale.

IL CASO DELLA BAM può essere visto come emblematico del cosiddetto modello Milano, che ha visto negli ultimi lustri il capoluogo lombardo trasformarsi da città grigia, centro propulsivo delle pulsioni retrograde e reazionarie destinate a riverberarsi nel resto del paese, in isola smart e progressista, allineata alle «grandi metropoli europee», in controtendenza rispetto a un’Italia segnata da una generalizzata tendenza alla regressione economica, sociale e culturale. E tuttavia, al di là degli ubiqui richiami alla sostenibilità, all’integrazione, alla modernità si tratterebbe di capire che cosa quel modello significhi nel suo complesso. E ciò risulta tanto più urgente nel momento in cui il consenso intorno a esso inizia a segnare il passo ed emergono con sempre maggiore chiarezza gli «altri» volti della medaglia.

Non è un caso, quindi, che il libro L’invenzione di Milano. Culto della comunicazione e politiche urbane (Cronopio, pp. 208, euro 15) di Lucia Tozzi in città abbia fatto molto discutere. Alcuni lo hanno letto con un senso di liberazione, trovandovi finalmente l’esplicitazione di pensieri che da tempo giravano nella loro testa. Altri hanno reagito con fastidio, vedendovi un attacco indiscriminato a tutto e tutti. La polemica spicciola ha ribattuto il tutto sulla contrapposizione fra chi odia Milano e chi la ama.
Del resto, oggi, riformulare le questioni pubbliche in termini di emotività costituisce la via maestra per depoliticizzarle ed escludere dalla discussione ogni questione di merito. E al di là della bella scrittura, che rende il saggio di piacevole lettura e, a tratti, anche divertente, di questioni importanti il saggio di Tozzi ne tocca molte, che riguardano lo specifico di Milano ma vanno oltre. A essere chiamate in causa sono non solo le scelte urbanistiche della città ma tendenze più generali riguardanti la relazione fra pubblico e privato, le politiche culturali, il welfare, i repertori di azione del volontariato, gli stili della ricerca scientifico-accademica.

L’«INVENZIONE» DEL TITOLO si riferisce alla diffusione e all’interiorizzazione di una narrazione, basata sulla sistematica deroga dal principio di non contraddizione. Milano sarebbe green ma allo stesso tempo procede a tassi di cementificazione stellari, sarebbe inclusiva ma allo stesso tempo obbliga un crescente numero di persone ad andarsene verso cerchie sempre più esterne, sarebbe solidale anche se ovunque si perimetrano spazi del lusso esclusivi ed escludenti. L’idea è quella di un gioco win to win, in cui i grandi progetti immobiliari, oltre ai profitti per sviluppatori e fondi, produrrebbero un fantomatico interesse collettivo promuovendo la rigenerazione dei quartieri, lo sviluppo di spazi a uso pubblico, il proliferare di attività culturali, l’affermazione dei valori della diversity, della sostenibilità, dell’inclusività.
L’invenzione di Milano non appartiene al genere del giornalismo investigativo, non rivela niente che non si sappia. Si limita a collegare fatti noti, evidenziando come facciano sistema. A emergere è una costante: il ripiegamento del pubblico e la delega delle funzioni in precedenza svolte a un privato variamente aggettivato. Con l’urbanistica contrattata, il comune, sottraendosi a una funzione di pianificazione strategica, si limita, in nome dell’esigenza di attrarre gli investimenti, a svolgere il ruolo di facilitatore, assegnando di fatto agli immobiliaristi il ruolo di decisori di ultima istanza sulle trasformazioni del tessuto cittadino.

LE PROPRIETÀ PUBBLICHE vengono alienate, in cambio di qualche spazio di «uso pubblico», o date in gestione a privati, come sta avvenendo per musei, aree verdi, piscine e mercati. Giocando sulle parole, si fa passare social housing per la traduzione di edilizia popolare, lasciando intendere che qualche blocco di appartamenti a canone calmierato possa compensare il completo stato di abbandono dell’edilizia pubblica. Al declino del welfare universalistico si accompagna l’attivismo di fondazioni e terzo settore che, culturalizzando le problematiche sociali, investono i quartieri con un profluvio di progetti di empowerment individuale e comunitario decisamente più funzionali alle dinamiche di gentrificazione che alla promozione degli interessi delle classi subalterne.

IL LIBRO DI TOZZI non si limita a denunciare le «malefatte» del real estate, a smascherare le retoriche emancipatorie di cui si ammantano o a evidenziare la subalternità di una politica che ha del tutto interiorizzato l’idea che solo il privato sia in grado di realizzare l’interesse collettivo. A essere chiamata in causa è anche e soprattutto la mancanza di opposizione che i meccanismi della rendita e dell’estrattivismo urbano hanno incontrato in questi anni. In particolare, si evidenzia come attori potenzialmente critici si siano mostrati incapaci di sottrarsi alla seduzione della narrazione dominante, e alle lusinghe del ruolo che a essi viene riservato.
Si tratta della Milano dei bandi, delle week, che sulla scorta del Salone del mobile, si sono estese a ogni periodo dell’anno e a ogni ambito dello scibile, della produzione/invenzione delle identità di quartiere, dell’uso della cultura e dell’arte come veicolo di unanimismo e consolatorio. Certo, si potrebbe obiettare, in giro c’è di peggio. Ma questo è il livello a cui è necessario attivare il conflitto, parola assente dalle narrazioni di questi anni, a partire da obiettivi che non è difficile identificare come la rivendicazione di spazi pubblici sans phrase, di una politica concreta di contrasto alla rendita immobiliare e, più in prospettiva, attraverso l’invenzione/costruzione di dispositivi istituzionali in grado di sottrarre alla cattura da parte degli interessi privati del valore prodotto collettivamente in termini di socialità, sperimentazione di nuove modalità del co-abitare e rigenerazione dal basso.

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SCHEDA. Mappe, luoghi aperti, eccentriche visioni

Per tastare il polso di una città che inizia a discutere su se stessa, il numero su Milano della rivista «The Passenger» (Iperborea, pp. 192, euro 19,50) fornisce una serie di punti di vista eccentrici e plurali. L’apertura e la chiusura sono affidate alle psicogeografie di Paolo Cognetti e Gianni Biondillo. Nel mezzo, trovano spazio vagabondaggi fra quartieri assai diversi fra loro come San Siro e Porta Venezia o un’apologia dei parchi periferici come luoghi aperti e felicemente indeterminati, in contrapposizione a quegli spazi a «uso pubblico» saturi di prescrizioni, indicazioni, attività strutturate. Poi si parla di molto altro, dalle economie microetniche al volontariato, si dispensano mappe e consigli d’autore, mentre sette fotografi (e un illustratore) sono chiamati a contrappuntare con le loro immagini le parole dei testi.