Lo slittamento dell’esperienza del gioco elettronico verso la forma seriale della televisione, sul cui schermo il videogame è per lo più giocato e guardato, parrebbe un fenomeno naturale se non differisse l’immagine di questi in una maniera così evidente; non si tratta solo dell’interazione necessaria nel videogioco contro la passività della visione televisiva, ma di forme che si impongono sullo sguardo in modi così dissimili da risultare indecifrabili. Solo il cinema sperimentale potrebbe tradurre in immagini i piani sequenza «infiniti» dei videogiochi, la fissità opzionale o i movimenti delle soggettive del quale è regista e attore lo stesso giocatore, le geometrie di inquadrature calcolate per una terza persona la cui stasi o azione alimentano centinaia di variabili.

Il cinema invidia i tempi del videogioco, la sua possibilità di divenire un cinema estremo, e non a causa di quella lunghezza che invece le serie televisive possono tendere a imitare ma dell’emancipazione dell’immagine videoludica dal montaggio, della liberazione dell’occhio in una regia controllabile e fluviale.
Ecco dunque che per tradurre il videogioco, cinema e televisione non possono che adattare la sua superficie, ridurla e arrangiarla affinché possa essere raccontata in una sintesi che è soprattutto estetica e narrativa, talvolta in maniera efficace altre no.

L’ultimo esemplare di videogame conformato per la televisione è il celeberrimo Fallout che si inserisce in quel piccolo insieme di opere riuscite a restituire almeno l’anima della loro fonte, le fondamenta narrative, riuscendo talvolta persino ad accennare qualcosa su quelle che sono le dinamiche ludiche in una maniera scolastica ma con una dignità manualistica, come l’anno scorso la serie di The Last of Us. Se dalla visione di quest’ultima, tratta dal gioco di Naughty Dog, era evidente la qualità di «survival» e avventura esplorativa, in quella ispirata alle opere di Bethesda sono intuibili ad esempio la «salita di livello» dei protagonisti, la loro determinazione in classi, l’importanza dell’accessorio e quella chimica/curativa/migliorativa delle pozioni. Tuttavia è proprio la filosofia di Fallout ad emergere, la sua più o meno sfuggente anima politica e critica che riflette come ha già fatto tanta fantascienza sulle conseguenze di un conflitto nucleare e sull’eterno ritorno di guerre, capitalismo, fazioni e nuove catastrofi anche dopo le ceneri dell’apocalisse.

Insomma «la guerra non cambia mai» si dice sempre in Fallout e lo affermava in maniera ancora più convincente e riuscita Old Snake in Metal Gear Solid IV; perché la guerra sopravvive oltre il suo epilogo più definitivo, un mostro che non si estinguerà mai finché permarrà anche solo qualche essere umano sul pianeta.

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Fallout è una storia post atomica di sopravvissuti ambientata qualche secolo dopo una guerra nucleare devastante immaginata negli anni ’50, ecco dunque che musiche, luoghi, modi e forme rimandano a quegli anni in quello che si suole chiamare «retro-futurismo». Ambientata in California, la serie in onda su Prime Video di Amazon, che l’ha anche prodotta (una multinazionale che tenta un discorso anticapitalista e ci riesce in parte è sempre un paradosso interessante ma insieme inquietante), è la cronaca di tre personaggi principali, accompagnati da alcuni più che validi comprimari.

C’è Lucy MacLean interpretata da Ella Purnell che dopo essere cresciuta nella relativa sicurezza dei rifugi detti Vault si metterà in viaggio per le terre contaminate in cerca del padre (Kyle MacLachlan) rapito dai predoni, una sua personale epopea di agnizione. Poi c’è il Maximus di Aaron Moten che appartiene alla Confraternita d’Acciaio, un esclusivo ordine cavalleresco, le cui gesta presentano un humor avventuroso talvolta «donchisciottesco». Infine Cooper Howard, il Ghoul, pistolero mutante dalla vita lunghissima di non morto con il volto alterato di Walton Goggins. Questo trio incrocerà inevitabilmente le proprie strade durante gli otto riusciti e persino appassionanti episodi di una ottima televisione spettacolare, ma ciò che risulta più interessante è che i loro incontri alimentano una contaminazione di generi che è proprio quella del videogioco: la fantascienza post apocalittica, l’horror, il western e la commedia grottesca. Anche i toni del racconto si succedono in una ispirata mutazione che trascorre dal drammatico al comico, dall’epico al patetico.

Risulta degna di nota la resa panoramica o claustrofobica degli scenari, i cunicoli sotterranei del Vault, i ruderi delle metropoli, i deserti e le selve radioattive di una nuova frontiera americana abitata da predoni, miserabili, residui del potere, robot e creature mostruose in una micidiale lotta per la sopravvivenza.

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Sorge infine il dubbio che nella guerra immutabile del Fallout seriale ci sia anche il suddetto conflitto irrisolvibile, malgrado alcune ovvie corrispondenze, che c’è appunto tra l’immagine del videogioco e quella della televisione o del cinema.

Una tensione inconciliabile perché nessuno è stato in grado finora di risolverla, tranne forse Sam Barlow in Immortality, un videogame che ci fa giocare con il cinema invece di essere segmentato, come tanti altri, da spesso meravigliosi frammenti di «cinema» innestati al loro interno come sospensione non interattiva, schegge di cinema purissimo inteso come imitazione che permangono intonsi nel loro candore malgrado la dimensione extra cinematografica per i quali sono realizzati.