Nel 2012 in Afghanistan si coltivavano ad oppio 150mila ettari e si producevano circa 4mila tonnellata dello scuro lattice di papavero. Nel 2012 gli ettari sono diventati 209mila e la produzione è schizzata a 5.500 tonnellate. In percentuale è un aumento del 36% del coltivato e del 49% della produzione. Aiutati dalla guerra e da un miglioramento della resa per ettaro (da 23,7/h a 26,3/h), i coltivatori han fatto buoni affari. Per meglio dire, gli affari li hanno fatti i signori dell’oppio anche se i contadini hanno forse visto qualche afghanis in più. Sono i dati incredibili che emergono dall’ultimo rapporto dell’Ufficio dell’Onu che si occupa di droga e crimine (Unodc). Il suo rapporto annuale è un must, ma quest’anno è un pugno nello stomaco che denuncia il fallimento delle politiche di eradicazione e l’aumento di un fatturato clandestino che finanzia la guerriglia e soprattutto la malavita. Non deve essere stato facile per il direttore di Unodc Yury Fedotov, che ieri ha presentato il rapporto stilato in collaborazione col ministero afghano che combatte il narcotraffico, documentare l’insuccesso clamoroso proprio alla vigilia del ritiro delle truppe dopo 12 anni di promesse, una delle quali era la fine del regno dell’oppio. Le sue parole di commento danno il segno di un vuoto progettuale che si appella a una taumaturgica speranza: «Ciò che serve è una risposta integrata e globale. Gli sforzi contro il narcotraffico devono essere parte integrante del programma di sicurezza, dello sviluppo e delle istituzioni». Un «mantra» sulla buona governance che non convince.
Qualche anno fa proprio Unodc dava conto di progressi perché le zone coltivate – tra incentivi ad eradicazioni – erano diminuite (nel 2007 si ebbe un picco di 193mila ettari scesi poi a 154mila l’anno scorso). Ma nel 2013, le 17 provincie dell’oppio sono diventate 19 (con l’ingresso di Balkh e Faryab), oltre dunque la metà delle province afghane (34) e con un aumento produttivo totale del 50%. Si può solo pensare che i narcotrafficanti avranno un gran daffare per non far calar troppo i prezzi. Il rapporto dice comunque che il costo al dettaglio resta ancora elevato e attraente (145 dollari al Kg) e che l’opzione oppio sarebbe una scelta disegnata dall’insicurezza che regna tra i contadini in vista del ritiro del 2014. Analisi poco convincente.
Il volume d’affari è di circa 950 milioni di dollari (4% del Pil 2013), un affare sicuro a fronte di un’economia che rischia invece, questo sì a causa del ritiro, la recessione o comunque una crescita molto più lenta di quanto non offra il narcomercato. Le aree produttive sono quelle dove più forte è il controllo della guerriglia (il 90% delle coltivazioni è concentrato in nove provincie del Sud e dell’Est). Il problema è che l’oppio è aumentato anche in aree non tradizionalmente talebanizzate, come il Badakshan.
Quel che sembra ritornare nell’analisi delle cause o nella proposta di un nuovo progetto (che non c’è) è la considerazione che la coltivazione dell’oppio sia un problema di contadini poveri, che preferiscono coltivare papaveri anziché cipolle. Il rapporto sembra ignorare che l’Afghanistan è un paese di grandi proprietari terrieri e di piccolissimi coltivatori diretti che hanno insignificanti porzioni di proprietà e che lavorano a mezzadria per altri. Sembra ignorare che, non esistendo un catasto credibile, è impossibile determinare veramente chi decide cosa coltivare e pare dimenticare la relazione tra trafficanti e guerra, come se il problema si restringesse alle aree controllate dai talebani anziché allargarsi agli uffici di Dubai, Mosca, Ankara o Napoli, dove si decide la rotta di una merce che viene poi smistata, tagliata e rivenduta dalle varie mafie nazionali (tra cui la nostra).
È il problema tocca anche la salute degli afghani: l’Afghanistan National Urban Drug Use Survey 2012 del Bureau of International Narcotics Usa (con dati afghani) fa una stima dell’uso (la ricerca è stata condotta in 11 capoluoghi di provincia, il 76% della popolazione urbana, ma esclude le città di Sud ed Est). Il campione rivela che l’uso di droghe interessa il 5% degli afghani ossia almeno un membro ogni dieci famiglie a Kabul come a livello nazionale, con picchi del doppio a Farah ed Herat (sotto controllo italiano). Il rapporto però mette insieme chi utilizza droghe diverse: il 46% sono oppiomani o eroinomani, il 32% usa hascisc (che in Afghanistan è usanza tradizionale) mentre un altro 22% ingersice benzodiazepine (contenute in molti farmaci). Anche in questo caso si finisce a far confusione.
Naturalmente il problema della presenza di eroinomani (con un aumento del 140%) esiste eccome. Se un tempo fumare oppio era uso tradizionale solo in alcune zone del Paese per motivi di povertà e fame (la droga resta diffusa nelle famiglie anche tra bambini e donne) adesso il problema sembra eminentemente urbano, spinto dalla diffusione di eroina raffinata localmente e dalla mancanza di speranze in un mercato del lavoro su cui si affacciano ogni anno 400mila nuovi giovani. I tossicomani si ritrovano in luoghi degradati o abbandonati, vivendo alla giornata. Strutture e finanziamenti sono scarsi e l’intervento è residuale, lasciato al buon cuore di qualche Ong. Contro i 6 miliardi spesi dagli Stati uniti per sradicare campi che vengono riseminati l’anno dopo.
Lettera22