A 25 anni dalla strage di Capaci, si moltiplicano le iniziative dedicate a Giovanni Falcone. Secondo un costume ridondante, ma non ancora logoro, si celebrano i morti, perché, come avrebbe detto lo stesso magistrato palermitano, in Italia, per essere credibili, bisogna morire. Ma chi era Giovanni Falcone? In quali condizioni si trovò ad operare? In quale contesto maturò la sua morte?

IL LIBRO di Giovanni Bianconi, L’assedio. Troppi nemici per Giovanni Falcone (Einaudi, pp. 400, euro 19), propone un percorso alternativo alla retorica dominante, ricostruendo gli ultimi cinque anni di vita pubblica di Falcone, delle dinamiche giudiziarie e politiche delle vicende che si svolsero a ridosso della crisi della prima repubblica e culminarono con la strage di Capaci. Attingendo a fonti giudiziarie e storiche, si articola nella ricostruzione delle vicende professionali di Falcone, che si sovrappone allo sfondo dei conflitti politici e degli interessi di Cosa Nostra. La criminalità organizzata, preoccupata di riguadagnare il terreno perduto dal maxi processo in poi, inquieta rispetto alla crisi dei propri referenti politici tradizionali, vede nella strage del 23 maggio 1992 un’occasione di tornare alla ribalta.

ERVING GOFFMANN spiegava che la società si compone di una pluralità di cornici simboliche, dove ogni attore, singolo o collettivo, si fa portatore di interessi, valori e scopi propri. Il conflitto viene mediato dalla condivisione di regole e linguaggi. La vicenda di Giovanni Falcone può essere letta in questi termini. I magistrati, che parlavano il linguaggio delle carriere, del formalismo giuridico, della burocrazia, scambiavano lo zelo di Falcone per un protagonismo che voleva violare le regole della cornice giudiziaria per acquisire vantaggi personali. La politica leggeva i tentativi del giudice di ritagliarsi spazi di autonomia accettando l’incarico offertogli da Claudio Martelli come una scelta di campo che intendeva rinnegare l’anti-mafia in funzione di acquisizione di quote di potere. Ne conseguiva la violazione del discorso anti-mafioso ufficiale.

La cornice della società civile di volta in volta lo accusava di essere troppo lassista o di attentare all’indipendenza della magistratura. Soprattutto, all’interno della cornice della lotta alla mafia, Falcone veniva visto ocme un fastidio dai mafiosi e da politici e imprenditori a loro contigui, come accondiscendente dal neonato fronte anti-mafia.

LA CIFRA di Giovanni Falcone, in realtà, sta esattamente in questo. Cioè, direbbe Goffmann, nel non avere parlato i linguaggi degli attori con cui, di volta in volta, interagiva. Dal libro di Bianconi emerge come il magistrato palermitano separasse mezzi e fini, sullo sfondo di principi inderogabili. Falcone concepiva la Superprocura sotto la luce di una maggiore efficienza necessaria a contrastare la criminalità organizzata, convinto che i principi costituzionali e il contesto democratico avrebbero fatto da argine ad ogni deriva accentratrice. In realtà sottovalutava lo scenario politico-giudiziario dell’epoca: i magistrati e il Psi erano in stato di guerra permanente dalla vicenda P2 in poi e il Pci-Pds faceva da sponda alla magistratura per uscire dalla marginalità politica. Nuovi attori, da Orlando a Bossi, si affacciavano sulla ribalta pubblica, chiedendo ai magistrati di certificare la genuinità delle «questioni morali» che ponevano.
Da qui scaturivano gli attacchi verso un magistrato che avevano impropriamente e precipitosamente arruolato tra le loro schiere senza consultarlo in merito. Falcone non si considerava un politico, ma un tecnico, che aveva acquisito conoscenza e professionalità nel campo del contrasto alla criminalità organizzata.

VOLEVA METTERE la sua esperienza e il suo sapere al servizio della collettività. Nel Paese del ruolo suppletivo della magistratura, questa scelta non è contemplata dalle diverse cornici pubbliche. Non è possibile rifiutare una scelta di campo, come faceva Falcone quando diceva al Csm che se esistesse il terzo livello basterebbe James Bond a togliercelo, smantellando tutta la dietrologia di cui si nutre da sempre la dialettica politica italiana. Ancora più radicale era il rifiuto verso una lettura dell’anti-mafia come una crociata e degli avvisi di garanzia come strumenti di regolamentazione della vita pubblica (una coltellata da infliggere così), quasi presagisse la canea giustizialista che stava per abbattersi da lì a poco sulla politica italiana.

Dal libro di Bianconi emerge che Falcone, più che un eroe da celebrazioni in pompa magna, è stato un eroe melvilliano, da «preferirei di no», che si metteva di traverso ai padrinati politici, agli spiriti corporativi, alle retoriche e ai professionismi dell’anti-mafia che si andavano formando in quegli anni. E che ha pagato per questo. Probabilmente è questa la ragione per cui va dimenticato in fretta. Perciò lo si dimentica nel modo più ovvio: gli erigono monumenti, gli dedicano trasmissioni speciali, e si trincerano dietro la sua effigie per giustificare giustizialismi, carrierismi e dicotomie semplificatorie che lui avrebbe rifuggito. Noi, invece, vogliamo ricordarlo col suo sarcasmo arguto e de-costruente. Speriamo di riuscirci.