Questo “ban” da FaceBook è diverso perché racconta di come e cosa le big tech siano capaci, pur di mantenere il proprio business. E di come siano capaci di travestirsi. I fatti, allora, che sono di pochi giorni fa e sono molto semplici da descrivere: FaceBook ha appunto bannato, espulso dal suo social, un’intera equipe di studiosi dell’università di New York, guidata dalla ricercatrice Laura Edelson. In più, ha impedito che nel suo “giardino recintato” – come tanti chiamano FaceBook – possa funzionare un’estensione, un’applicazione: la “Ad Observer”.

In anni e mesi nei quali i social, tutti i social, hanno censurato utenti, più o meno famosi e potenti, in anni e mesi nei quali hanno silenziato proteste ed opinioni senza neanche dover fornire spiegazioni, quest’ultima “espulsione” dal mondo di Mark Zuckerberg poteva essere solo l’ennesimo caso da aggiungere all’elenco. Ma grazie all’appello di duecento autorevolissimi professori e ricercatori statunitensi, la vicenda è diventata un caso.

Da sfondo a tutto questo, c’è il targeting di Facebook, il vero cuore delle sue attività, il targeting pubblicitario. Tradotto: da cornice c’è la raccolta di informazioni degli utenti di FaceBook, selezionati per gruppi (nessuno conosce la loro suddivisone: potrebbe essere per città ma anche per opinioni politiche, lavoro, professione, orientamenti sessuali), vendute a chi fa inserzioni sul social network. Dopo gli scandali che accompagnarono la penultima campagna elettorale statunitense (per capire, la storia di Cambridge Analytica, la società londinese che rubò i dati di 50 milioni di persone per favorire l’elezione di Trump) furono varate normative e regolamenti, quasi sempre comunque “auto-regolamenti”, per provare a silenziare la protesta contro le profilazioni illegali. Così da un po’, quando sul proprio profilo FaceBook appare un’inserzione, alla fine della pagina, quasi invisibile, c’è anche un link. Cliccandolo si arriva ad una schermata che dice che se si vuole sapere perché quel committente ha scelto proprio te, si può cliccare ulteriormente. E via così, fino ad arrivare al nome del committente e una spiegazione che più o meno recita così: ti mandiamo questo spot perché sei amico di Jimmy Smith.

Bene, quattro anni fa propubblica, uno dei più autorevoli siti di giornalismo investigativo, ha lanciato il progetto “Ad Observer”. Si tratta semplicemente di un’estensione, di una piccola e leggerissima app, che legge le informazioni – pubbliche – che si possono trovare seguendo quell’itinerario che inizia con la domanda: “perché ti ritrovi quest’annuncio pubblicitario?”.

Le risposte poi vengono – venivano – inviate al Cybersecurity for Democracy della NYU Engineering. Che le elabora(va). Ne fa(ceva) report e grafici, consultabili da tutti. Era un modo per controllare, per provare ad esercitare un controllo, sui dati raccolti da FaceBook e sui suoi acquirenti. Su cosa veniva raccolto dal social network e a cosa serviva. E magari proprio grazie a questo progetto s’è scoperto quali erano le potenti organizzazioni reazionarie che finanziavano la disinformazione contro i vaccini.

Il progetto – ovviamente – ha subito trovato l’opposizione e l’ostilità di Zuckerberg e dei suoi. Opposizione anche un po’ sguaiata. Tanto che l’anno scorso FaceBook intimò all’università di New York di “bloccare subito” il progetto. Accusò i ricercatori nientemeno che di “scraping”: la pratica, cioè, di grattare qualsiasi cosa si trovi in rete per estrarne dati. Esattamente le tecniche utilizzate dai social. Di più: FaceBook sostenne che quel che faceva l’app Ad Observer era in palese violazione delle ultime normative contro le frodi e gli abusi on line. Un portavoce del gruppo arrivò a sostenere che questa violazione era stata sancita anche da un giudice. Cosa rivelatasi palesemente falsa.

Passata quella tempesta, in questi giorni, FaceBook è tornata alla carica. Ma soprattutto ha deciso di agire. Da sola, cacciando gli studiosi dal suo social e inserendo un codice su FaceBook che impedisce ad Ad Observer di funzionare. Con un’aggiunta che vale la pena sottolineare. Di fronte alle proteste, all’appello dei docenti, uno dei massimi dirigenti del gruppo, Mike Clark, ha pubblicato sul suo blog un lungo post. Che rivela come il più grande social del mondo sia capace di cambiare pelle. E inventarsi quello che l’Eff definisce – con uno splendido neologismo – il “privacywashing”. Esattamente come il greenwashing dei gruppi petroliferi che improvvisamente si scoprono difensori dell’ambiente.

Qui, nel post, Clark dice che Ad Observer è stato bloccato perché metteva a rischio la privacy degli utenti. Purtroppo per Clark e FaceBook, un gruppo di esperti e gli ingegneri di Mozilla, hanno esaminato a fondo il codice sorgente dell’estensione. Confermando quello che gli autori spiegano nella loro homepage: non c’è mai stata alcuna violazione di privacy, gli utenti hanno accettato di spostare sul database dell’università di New York le risposte che ricevevano da Facebook, non è stato mai raccolto alcun dato personale. Né altri dati che potessero consentire l’identificazione degli utenti. Per farla breve: Ad Observer rendeva solo più rapido un semplice “copia incolla” che tutte le persone disponibili avrebbero potuto fare manualmente.

Nessuna violazione, dunque. Molto semplicemente Ad Observer è stata bannata perché era il primo progetto scientifico – ma anche perché non dirlo? politico – che puntava a violare la segretezza degli affari di FaceBook. E questo Zuckerberg non può tollerarlo