Notizie agrodolci dalla Rete. Questa volta sotto accusa è Facebook. Nell’arco di poche ore il social network è stato messo all’indice da un tribunale di Napoli e in Germania. Con una sentenza che farà a lungo discutere, il tribunale della città campana ha infatti accolto un’istanza della madre di Tiziana, la giovane donna che si è tolta la vita dopo la disperante constatazione che le sue richieste di rimuovere un video dove faceva sesso postato sul web erano rimaste lettera morta.

Da Monaco, invece, la notizia di una possibile inchiesta contro il social network di Marck Zuckeberg per non aver rimosso pagine inneggianti allo sterminio degli ebrei, nonostante le precisazioni di Facebook di aver rispettato le leggi dei due paesi.

La sentenza napoletana è discutibile perché indica nei gestori del social network una sorta di gendarmi preposti al controllo della liceità di contenuti veicolati in Rete.

Ma l’odio in Rete è un prezzo, necessario, da pagare per la libertà di espressione? Dietro la vicenda della giovane donna emerge un sessismo (una forma di femminicidio) da cancellare dalla piazza virtuale. Lo stesso rigetto vale per chi fa apologia della Shoah.

Non serve però un atteggiamento salomonico, che impartisce colpe e meriti, tagliando in due la realtà.

Hanno ragione da vendere le donne che affermano che si può uccidere in molti modi, anche veicolando contenuti da cloaca. «Non una in meno», il claim scelto per la giornata internazionale contro la violenza sulle donne, vale anche nella tragica, dolorosa storia di Tiziana. Così come vale quel «mai più» riguardante la Shoah.

La Rete è uno spazio che riflette e amplifica la realtà. È dunque cosa buona e giusta praticare la contestazione anche nel cyberspazio. Senza che sia prerogativa solo dei magistrati.