Nel 1934 Giorgio Pasquali dava alle stampe la sua Storia della tradizione e critica del testo. Il volume chiariva fin dal titolo – dalla genesi tormentata – gli elementi di novità. Il metodo di Pasquali era figlio dell’insegnamento dei Wolf, dei Boeckh, dei Wilamowitz: una filologia integrale che prevedeva la conoscenza pervasiva e minutissima del mondo antico in tutti i suoi aspetti fino a conseguire una assimilazione completa di quella società e, conseguentemente, dei testi che essa aveva prodotto. Adottando quel titolo Pasquali sottolineava dunque la necessità di seguire il percorso dei testi lungo la discesa dei secoli (la tradizione) e di giovarsi di quei risultati non solo per ricucirne le membra lacerate ma anche per migliorarne la comprensione. Non è un caso che quella lezione trovasse, fin dal suo maturare, una sponda attenta e partecipe nel maggiore filologo italiano del tempo, Michele Barbi, che proprio in quei decenni avviava una vera rivoluzione negli studi di italianistica: la cosiddetta nuova filologia. Barbi, a suo agio tra i documenti d’archivio così come tra i testimoni manoscritti della Vita nuova (nel 1907 ne diede la prima edizione condotta con metodo stemmatico), avviò lo studio degli autografi di autori antichi e moderni – diventerà la filologia d’autore – e gettò le basi per la filologia dei testi a stampa (esemplare il contributo sul testo dei Promessi Sposi), ma – mi pare che nessuno se ne sia finora avveduto – fornì anche preziose indicazioni di stemmatica condotta sulla base di sillogi o sequenze di testi, oggi etichettata ‘filologia delle strutture’ (lucidissime le note a piè pagina del saggio su Franco Sacchetti).
A quella compagnia si sarebbe presto aggiunto il più giovane Giuseppe Billanovich (non a caso ricordato da Pasquali): ricostruendo la biblioteca del Petrarca, Billanovich non solo ne metteva in gioco le letture nel processo di tessitura dei suoi capolavori, coniando la celebre formula di ‘Petrarca letterato’ e svincolando il poeta dalla pesante cappa dell’idealismo estetizzante di marca crociana, ma tirava anche le fila delle tradizioni dei maggiori classici latini – Livio su tutti – che, come in un collo di bottiglia, erano transitati sugli scaffali di quella biblioteca per poi disperdersi nei mille rivoli di collezioni minori e minime. Uno strumento efficace ed economico, accanto alle laboriose tavole di collazione, che consentiva di mettere ordine nella tradizione testuale.
Così la filologia approdava allo studio accuratissimo delle testimonianze manoscritte per individuare «facce, barbe e chieriche» (così Billanovich) che quei manoscritti avevano copiato e annotato, ridando loro vita; ma allo stesso tempo entrava nel laboratorio dello scrittore – fosse Petrarca, Boccaccio, Manzoni o Leopardi – smontandone le strategie compositive, rivelandone letture e culture, attingendo alla linfa che lo aveva alimentato: in una parola individuava gli strumenti che ne garantissero una più profonda comprensione. Storia della tradizione e critica del testo, come si diceva.
L’insegnamento di Barbi e Pasquali – addotti, qui, come arconti eponimi – portò frutti abbondanti. Le tappe del cammino possono essere scandite dal congresso della Commissione per i testi di Lingua del 1960 (nel 2012 un secondo volume ha celebrato i 150 anni dalla nascita della Commissione) e dal congresso di Lecce del 1984, entrambi impegnati a riflettere proprio sui problemi di metodo che accompagnano il lavoro del filologo (la lista degli interventi mette ancora soggezione: Avalle, Contini, Roncaglia, Segre, Isella, Mariotti, Petrocchi, Folena, Castellani, De Robertis etc.).
A oltre trent’anni di distanza dal convegno leccese esce ora presso la Salerno Editrice una nuova silloge di contributi che vuole costituire una seconda pausa di riflessione rispetto a quell’evento (La critica del testo Problemi di metodo ed esperienze di lavoro. Trent’anni dopo, in vista del Settecentenario della morte di Dante, «Biblioteca di “Filologia e critica”», pp. 802, € 75,00). Come detta il titolo, il volume si basa su quanto di più utile si possa desiderare soprattutto per il giovane aspirante filologo: le esperienze di lavoro. Scelgo alcuni casi di interferenza tra autore e copista, anche quando l’autore si fa copista di se stesso.
Nel trascrivere i testi danteschi Boccaccio manifesta, comprensibilmente continue cadute di attenzione: in Io son venuto inverte i vv. 5 e 6 raddrizzando poi la sequenza con due letterine guida, ma nel copiare il testo altrove non si avvede della correzione e ripete l’errore. E d’altro canto nel rivedere il proprio autografo del Teseida (I, 38, 3-4) non si accorge di una patente ipermetria («i denti batte e rugghia e gli spediti / sentieri ad sua salute cerca et pe’ romori»). Le interferenze si infittiscono quando il copista è persona altra dall’autore e quando le sue abitudini grafiche interagiscono col sistema autoriale. Qui, a guidare, è l’esperienza del filologo che ben conosce i rischi della tradizione (Giancarlo Breschi, Copista “per amore”: Boccaccio editore di Dante e Stefano Carrai, Metrica e critica del testo).
Un esempio illuminante offre ancora il Boccaccio nella novella di Bernabò da Genova (Decameron II, 9, 42): vi si menziona un tale En Carah, che «d’una sua nave, la quale alquanto di quivi [Genova] era lontana in albagia, disceso era a rinfrescarsi a una fontana». La parola albagia, nell’autografo (il celeberrimo Hamilton 90 ora a Berlino) spezzata tra le due righe (alba / gia), finì con l’ingannare copisti ed editori che hanno collocato la famigerata fontana ad Albisola, vicino a Savona, aggrappandosi all’antico toponimo Alba ma non riuscendo a disfarsi dell’incongruo avverbio già. L’errore garantisce che da qui attinse, replicandolo, il pur diligente Francesco d’Amaretto Mannelli traendo la sua copia del Decameron, ma soprattutto certifica l’importanza, per il filologo, di una solida competenza linguistica, tale da rivelargli che albagia significa, in antico, ‘bonaccia, assenza di vento’, col che non c’è bisogno d’altro. Una serie esemplare ed efficace di simili incidenti documenta il saggio di Maria Careri (Raccogliere errori nei manoscritti romanzi) che mi traghetta alla chiusa.
In questi ultimi decenni l’attenzione alla tradizione testuale si è notevolmente dilatata soprattutto in riferimento ai suoi aspetti materiali. Ciò ha consentito indubbiamente il recupero di elementi preziosi anche per l’accertamento della lezione, e d’altro canto proprio la rassegna degli incidenti di copia mette in guardia dallo scambiare il copista con l’autore. La cosiddetta filologia materiale insomma – che a volte trascolora nella filologia del lettore o della ricezione – non ha nulla di nuovo o di diverso da ciò cui Pasquali faceva riferimento nel titolo del suo volume: costituisce uno dei tanti passaggi cui è tenuto il procedere del filologo se condotto con il rigore necessario. E invece proprio l’attenzione per il singolo oggetto fisico, particolarmente enfatizzata in area anglosassone, ha finito col fungere da pretesto per una liquidazione sommaria della metodologia filologica al rango di specialismo pedantesco (Lino Leonardi, Storia del testo, prassi ecdotica e ruolo della filologia) relegando la scuola italiana – non priva di sponde compiacenti – a un ruolo del tutto irrilevante ma soprattutto rifiutando le procedure che consentono una corretta interpretazione dei testi. L’Università italiana ha le sue responsabilità, a cominciare dal fatto che «le edizioni critiche pagano poco in termini di fiscalità accademica, in quanto a un notevole sforzo nella ricerca corrisponde spesso un prodotto di estensione limitata, che risulta penalizzato in sede di valutazione» (ineccepibile Paolo Chiesa, Le tradizioni sovrabbondanti. Strategie di approccio). Il grande Kristeller diceva di preferire due edizioni critiche senza commento a una commentata. Forse è un po’ troppo, purché non si arrivi a commentare, dottamente, un testo che non si è capito.