«Rai Tre-Fuori Orario» lo ha trasmesso in anteprima nazionale durante il lockdown, registrando un volume di ascolti a dir poco considerevole (circa 400.000 spettatori in programmazione notturna). Martedì scorso, 15 settembre, Checkpoint Berlin si è definitivamente emancipato dall’inibente morsa della distribuzione televisiva (non male per un’opera che punta a dissezionare il concetto stesso di «confine»…): al culmine di un nostos ripetutamente frustrato dall’incalzare della pandemia, il film ha conquistato quel grande schermo in onore del quale è stato concepito. A Roma (Palazzo delle Esposizioni), Torino (Cinema Massimo-Museo Nazionale del Cinema), Palermo (Cinema Rouge et Noir) e Barcellona (Filmoteca de Catalunya). Abbiamo intervistato il regista del film, Fabrizio Ferraro.

L’idea del film ha preso forma sul campo, nel cuore di Berlino, in occasione della presentazione al Volksbühne del tuo precedente lavoro, «Gli indesiderati d’Europa».
Poche ore prima della proiezione ho avuto l’occasione di passeggiare con Marcello Fagiani, uno dei produttori del film, lungo la linea del muro. Conversando e riflettendo su varie cose, tra cui il taglio del muro, la violenza angosciosa di quell’esperienza, ci siamo resi conto che emergevano spunti molto interessanti da approfondire e condividere.

In quali termini «Checkpoint Berlin» si rapporta al discorso sugli «Unwanted» che hai affrontato nel film precedente?
Anche in Checkpoint Berlin c’è una persona che decide, per svariati motivi, di non prendere posizione, di non scegliere fra due sistemi di potere, Est/Ovest, ma di essere parte attiva, «vivente», di una ferita storica. Il protagonista del film sceglie consapevolmente di «farsi muro», di affacciarsi simultaneamente sulle parti in lotta, di essere allo stesso tempo interno ed esterno, per non cadere nelle trappole del proprio tempo, nei suoi crimini, sempre giustificati dalle «verità» ufficiali.

È presente in «Checkpoint Berlin» una marcata volontà di lavorare sulla coerenza dell’impianto drammaturgico. C’è addirittura un flashback che si propone di approfondire il vissuto del protagonista e di conferire una – comunque scarna – sostanza al suo profilo identitario.
Anche in questo caso non c’è stata un’intenzione a monte, piuttosto un naturale accordo con una forma possibile. Ci sono nel film tanti altri film, che si condensano sulla linea del muro. L’idea stessa di muro ci permette di rintracciare simultaneamente epoche, storie e forme diverse. Pensa alle Mura Aureliane a Roma. Le ho osservate e filmate tante volte. Sulla loro superficie una scritta d’amore di pochi anni fa può sovrapporsi a un segno del Trecento.

In «Checkpoint Berlin» ti concedi apertamente a un solido spessore emotivo. Penso al sottofinale, al pianto dei due «Unwanted», al controcampo rivelatore sul volto di Alessandro Carlini. Un momento che sembra segnare una svolta nella tua filmografia (un po’ come aveva segnato una svolta, forse propedeutica a quest’ultima, il dialogo tra Euplemio Macrì e Catarina Wallenstein, Walter Benjamin e Lisa Fittko, sul molo di Port-Vendres ne «Gli indesiderati d’Europa»).
Penso che nella vita, come nell’arte, sia interessante mettersi in gioco, approfondire luoghi e aspetti poco frequentati, proprio per non cercare conferme in un presunto sapere già sedimentato. C’è gente che scrive un libro o gira un film solo per manifestare un pensiero pregresso. È una pratica che mi risulta un po’ insensata, poiché blinda le idee nei territori delle certezze. Questa ricerca ostinata di conferme, purtroppo, sembra sedurre molti cineasti contemporanei. Del resto, viviamo in un tempo di passaggio e di profonda crisi. E allora viene naturale accogliere solo ciò che conferma la propria morale, il proprio costume, i propri dogmi.

«Checkpoint Berlin» apre il tuo cinema a una raffinata pratica di sperimentazione sulla tessitura del colore.
Più che di colore potremmo parlare di luce, di riflessi. È sempre difficile capire la forma che un film dovrebbe avere, perché ogni film ha una forma che si svela nel suo processo. Colore e b/n agevolano procedimenti formali differenti: il colore ti permette di lavorare maggiormente su ciò che è fuori dalle cose, sull’aria fra le cose; il b/n di restare ancorato alle forme essenziali.

Vorrei che parlassi anche della macchina ottica, soluzione tecnica elaborata in sinergia con il tuo operatore, Giancarlo Leggeri.
Come si accennava prima, anche la costruzione di questa macchina ottica è nata da un’esigenza interna al film. Anzi, interna ai film, Checkpoint Berlin e La veduta luminosa, che uscirà prossimamente. Un tentativo di fare quello che si dovrebbe sempre fare, cioè lavorare «con» la luce e non pensare di ricrearla e costituirla internamente al codice tecnologico binario. Ciò nonostante, la maggior parte dei cineasti contemporanei crede che l’immagine sia «una presa», prende i dati per ricrearli e produrli, compromettendo ogni posizione di ascolto, mentre sono le immagini che vengono a noi, non siamo noi ad afferrarle. A noi non spetta che intercettarle e accoglierle.

Un elemento di continuità che attraversa tutta la tua filmografia, e che possiamo rintracciare anche in «Checkpoint Berlin», è la riflessione – implicita, mai invasiva – sugli spazi della città, sui loro incessanti «passages». Torniamo sempre a Benjamin…
Certo, a Benjamin e ai tanti altri «Indesiderati» che sfidano con coraggio i muri del proprio tempo.

Rossellini, nume tutelare. In «Checkpoint Berlin» persiste il riflesso memoriale – non potrebbe essere altrimenti – di «Germania anno zero», ma si tratta di un residuo avulso dal tempo, privato della sua connotazione squisitamente neorealista. «Checkpoint Berlin», a differenza di «Germania anno zero», non muove da un’epoca specifica. Trascende il tempo in una vertigine che non è tanto dissimile da quella, secolare, straziante, prodotta da «Colossale sentimento».
Più che a «Germania anno zero», «Checkpoint Berlin» mi sembra guardare a «Viaggio in Italia», alla sequenza degli scavi di Pompei, quando Ingrid Bergman e George Sanders si imbattono nella silhouette millenaria di due amanti sopraffatti dall’eruzione del Vesuvio. L’anno 79 si sovrappone, in una sorta di dissolvenza metempirica, al presente: il «prima» e il «dopo» vengono depennati all’istante. Un lampo vertiginoso, un istante epifanico, che dischiude una voragine dai risvolti metafisici. Non siamo immuni all’attraversamento del tempo: se non ci è dato varcarlo, sarà comunque lui, il tempo, a incaricarsi di transitare in noi. Gli amanti di Pompei, in misura analoga ai tuoi «Unwanted», appartengono al tessuto dell’esperienza, sono un «qui e ora» che si rinnova a ogni battito di ciglia, l’espressione rigogliosa di un eterno presente.

Sono d’accordo con la tua analisi. Un eterno presente «differito», infatti stiamo scoprendo che nel cinema – ovviamente siamo in buona compagnia – non si ha tanto a che fare con un fuoricampo quanto con un diverso modo di apparire, tutto interno al campo della visione. E qui mi fermo. Potrei dire di più, proseguire su questa china… ma per fortuna esistono i film, che ci evitano di produrre parole in eccesso e di risultare a nostra volta esageratamente ridondanti.