L’improvvisa chiusura dei teatri ha interrotto bruscamente l’attività di quelle sale che erano riuscite ad iniziare la stagione nonostante le difficoltà. La programmazione è stata inevitabilmente condizionata dalle tante incertezze, in questo contesto si è spesso puntato sulle produzioni locali e diversi giovani artisti hanno trovato spazio.

Uno di questi è Fabio Condemi, regista di due spettacoli inseriti nel cartellone del Teatro India di Roma. Il primo, La filosofia nel boudoir, è tratto dall’opera di Sade ed è andato in scena dopo essere stato presentato anche alla Biennale Teatro; il secondo, Questo è il tempo in cui attendo la grazia, è una biografia onirica di Pasolini e avrebbe dovuto debuttare la prossima settimana. Entrambi i lavori nascono all’interno di Oceano Indiano, un progetto di residenza e produzione del Teatro di Roma dove cinque compagnie, dall’inizio dell’anno, stanno abitando gli spazi sul Lungotevere per dar vita ad incontri, camminate guidate, workshop e spettacoli veri e propri. In primavera gli artisti residenti – anche DOM-, mk, Muta Imago, Industria Indipendente – non si sono fermati e hanno portato avanti il progetto attraverso la creazione di una web-radio, Radio India.

Come ci ha raccontato Fabio Condemi, «è stata una proposta non solo di contenuti, ma anche di una forma diversa che ha reso possibile la creazione direttamente nell’immaginazione degli spettatori». Considerando la mancanza della rappresentazione come un elemento della propria ricerca, acquista un senso nuovo l’enigma del discepolo di Giotto nel Decameron pasoliniano, visibile in una foto di scena dello spettacolo rimandato: «Perché realizzare un’opera, quando è così bello sognarla soltanto?». Abbiamo parlato con il regista di questo momento di passaggio.

Com’è stato andare in scena in questi tempi emergenziali?
È stata una sorpresa piacevole, naturalmente con le difficoltà e le attenzioni che c’erano nel rispettare scrupolosamente le norme, sia nel pensare la messa in scena che nell’entrare in sala. All’inizio ero spaventato da come gli spettatori avrebbero reagito, invece la risposta è stata ottima, c’era molta voglia di tornare a teatro. La filosofia nel boudoir poi è un lavoro che richiede una certa attenzione, quindi sono stato ancora più stupito della volontà di tornare in sala non per essere intrattenuti ma per mettere in moto delle riflessioni. In questo senso è stato un momento con un significato politico, è stato vitale vedere questo pubblico molto eterogeneo.

Pensi che la chiusura sia giustificata dalla situazione epidemiologica o si sarebbe potuto agire diversamente?
Non entro nel merito delle decisioni, ci saranno sicuramente delle motivazioni. Posso parlare della mia esperienza anche come spettatore, in cui c’è stata una forte sensazione di sicurezza e di cura, su questo non ci sono dubbi. Passati i controlli, l’attenzione diventava qualcosa di condiviso, si percepiva il rispetto per la situazione. Sono molto contento di essere riuscito a fare teatro con questi riguardi, da entrambi i lati del palcoscenico.

Con il progetto Oceano Indiano siete stati molto attivi in primavera attraverso la web-radio Radio India. È stato un esperimento riuscito?
Radio India è nata in un momento di sconforto, paura e tristezza. È stato salvifico farla, una bellissima esperienza anche riascoltandola adesso. Non voleva essere una riproposizione di materiali teatrali gettati in radio, volevamo creare qualcosa che avesse a che fare con l’assenza della rappresentazione. È stata una ricchezza per programmi come Sparizioni dei Muta Imago o come il mio Specie di spazi, nato dall’opera di Georges Perec. Grazie alla dimensione radiofonica ci siamo interrogati sullo spazio, che in quel momento sembrava qualcosa di così fragile. Lo considero un mio lavoro teatrale in dieci puntate. Abbiamo poi ripreso Radio India in una seconda versione chiamata Cronache Fluviali ed è in continuo mutamento, penso che ci accompagnerà ancora come progetto di Oceano Indiano.

«Questo è il tempo in cui attendo la grazia» è un lavoro sulle sceneggiature di Pasolini. C’è qualcosa della sua opera e del suo pensiero che può parlarci in un momento come questo?
Trovandoci in una fase in cui siamo sottoposti ad una saturazione violentissima delle immagini, quello di Pasolini è uno sguardo lento e profondo sul mondo, sui volti, sulla natura. Mi aveva colpito un testo di Georges Didi-Huberman, Come le lucciole, dove si sostiene che nell’opera di Pasolini una persona, un fiore, una lucciola sono esseri che illuminano le tenebre e per questo diventano resistenti. È uno sguardo sulla grazia e la vitalità nascoste nelle cose, nei gesti, nei momenti. Mi sono occupato delle sceneggiature e non dei film perché mi interessa ciò che viene prima della messa in scena, l’irrealtà e l’assenza della rappresentazione, il potere delle parole e le immagini che possono evocare.